Riciclarsi

Riciclarsi

Settembre 11, 2019 2 Di Marta Cerù

Stamattina, mentre guidavo e ascoltavo la radio, mi ha colpita un veloce excursus della moltitudine di produzioni nate dopo 9/11, per commemorare e ricordare, in qualunque campo artistico, dai romanzi al cinema, quella terribile mattina del 2001, quell’attacco alle Twin Towers e all’America tutta. Ho ripensato ad alcune pagine delle mail che scrivevo allora, vivendo nella Grande Mela, agli amici oltreoceano, quelle scritte a caldo, dopo l’attentato, che ho riportato tali e quali nell’articolo intitolato Finestre. Ma poi mi sono anche ricordata di un racconto che scrissi anni fa, anche questo sfociato in uno scorcio immaginario di quella tragica mattina. Si intitolava “Riciclarsi” e non l’ho mai tirato fuori dal cassetto, se non in una classe di scrittura una volta, dove ci ho rimesso mano. La stesura che ne è venuta fuori allora non sarà forse l’ultima. Ma al momento lo è: un tassello anche questo del mio personale riciclaggio nella scrittura in varie forme. Nonostante tutto, continuo a credere che scrivere sia la mia chiamata, in un modo o nell’altro…

Freedom Tower, New York

Riciclarsi

“Svegliaaaa! Muoversi…Il caffè è bollente”
“Cazzo, non c’era bisogno di urlare. Guarda che mi sveglio lo stesso. Ecco, visto, sono in piedi. Fanculo ai tuoi modi. Merda, stavo così bene”. E davvero mi sentivo bene, come sempre quando dormo. Ma Rudy non lo capisce. Lui odia dormire. Se il fisico gli reggesse eliminerebbe il sonno, una due ore ma poi riparte con la sua parlantina e sembra non volersi mai fermare.
“Hey poltrona! Guarda che Carlos, Josè e Pablo stanno depositando la spazzatura. È ora di cominciare la caccia al tesoro”.
Ogni notte la stessa storia. Rudy mi porta la solita tazza usa e getta piena di caffè nero. Siamo pronti a servirvi c’è scritto sul cartone sotto l’Empire State Building, e io mi sento davvero un po’ servita. Mi appoggia sulla panchina alcune buste di plastica grandi e trasparenti e parla. E mentre lui parla io riemergo dal mio solito sogno e mi rendo conto che non sono a casa, non sono nel mio letto, non sono con Jo. Guardo Rudy, bevo il caffè e sento i rumori del grande carrello pieno dei sacchi di spazzatura spinto da Carlos verso il ciglio della strada. Anche gli altri operai emergono dai vari palazzi che affacciano su Central Park. Tutti spingono i carrelli e li svuotano posando i grandi sacconi neri di immondizia sul marciapiede. Sono i rifiuti delle migliaia di persone che vivono in questo complesso di appartamenti. Quattro palazzi, ognuno di venti piani, ogni piano dieci appartamenti. Ogni notte nei seminterrati gli inservienti consolidano la spazzatura e la depositano fuori. All’alba è pronta per essere ritirata dai camion dell’immondizia.
Ma nel frattempo comincia il mio lavoro.
“Merda, scotta, potevi almeno metterci la fascetta di cartone. Figurati se ci pensavi”. Il caffè newyorkese è sempre ustionante, che poi se è inverno fa anche piacere, specialmente quando dormi su una panchina. Ti arriva quella tazza di cartone calda tra le mani e te la rigiri un po’ per riprendere i sensi, poi sorseggi e la caffeina entra in circolo per darti il carburante e la spinta a muoverti.
“Ti piace fare la principessa Sara. Guarda che con me non attacca!” Da quando lo conosco Rudy mi prende per il culo. Negli ultimi mesi ha cominciato a chiamarmi principessa e mi sfotte per i guantoni che mi ha regalato il tizio che di notte passeggia sempre con il suo sigaro qui attorno alla mia panchina. È uno per bene, solitario, educato e ogni tanto mi allunga qualche dollaro. Si perché in questa parte di Manhattan vive gente con i soldi. Non gli straricchi della quinta strada, no, persone con i piedi per terra. lavorano tutto il giorno chissà in quale studio di avvocato, o di medico o di affari finanziari e poi li vedi la sera tornare, cambiarsi, andare a fare jogging nel Parco, uscire a cena, o portare i figli a spasso.
I guanti sono di gomma molto spessa, lunghi fino ai gomiti. Me li metto dopo aver fatto la mia camminata nel parco, essermi lavata alla fontanella, essermi infilata la divisa di cotonaccio e il grembiule grigio e aver preparato il carrello.
Si perché ho anche un bel carrello di quelli del supermercato. A dire il vero non ce l’ho sempre avuto. È stato Rudy a procurarmelo. E diavolo se mi serviva. Con quello che avevo prima riuscivo a caricare un quinto delle lattine e bottiglie che carico adesso. E facendo il conto alzavo dai sei ai dieci dollari al giorno in confronto ai trenta e passa che mi metto in tasca adesso.
Ci vuole metodo per la raccolta. E anche quello me lo ha insegnato Rudy. Sono stata fortunata a incontrarlo, mi dico ogni sera. Avrei potuto imbattermi in chiunque in quelle prime settimane di cui ricordo poco o nulla. Giravo come una zombie su e giù per Manhattan. Avevo passato giornate e nottate ad aspettare Jo, a cercarlo attorno a Ground Zero, a respirare il fumo la cenere, a stordirmi con le sirene, le urla, la disperazione, a vagare tra gli altri che cercavano, che mettevano foglietti e foto sulla recinzione della chiesa di St. Paul. Ci avevo pure pregato nella Chiesa, sperando nel miracolo. Ma nessuno mi aveva ascoltato. Cazzo non che ci credessi in Dio, ma in quei momenti ci ho provato. A illudermi che Jo avesse fatto tardi quella mattina, si fosse fermato a fare colazione da qualche parte, avesse avuto un imprevisto e non fosse arrivato puntuale nella sua “finestra sul mondo”, come gli piaceva chiamare il ristorante dove lavorava come cameriere. Che poi “Finestre sul mondo” si chiamava davvero e ti faceva illudere di vedere il mondo da quella fottutissima altezza dell’ultimo piano della torre Nord del World Trade Center.
Rudy, dicevo, l’ho incontrato quando ormai stavo per perdermi del tutto. Dopo non so più quanti giorni da quel maledettissimo 11 Settembre sono rientrata in casa di notte. Non ci mettevo piede dalla mattina dell’attacco. Ero in trance, non mangiavo da giorni e avevo ormai perso la speranza che Jo fosse vivo. Volevo farla finita. Avevo abbastanza sonnifero da riuscirci senza sforzi ed ero così esausta che bastava solo ingollare le pasticche , scolare la bottiglia di Whisky e sdraiarmi. Nessuno sarebbe venuto a cercarmi. Ho preso il barattolo di pillole e mentre cercavo tra le bottiglie in cucina ho sentito una puzza che mi ha rivoltato lo stomaco. Era la spazzatura. Ho chiuso gli occhi e sentito la voce di Jo.
“Stanotte non ce la faccio a buttare la spazzatura. Ci vai tu?”
“Cazzo Jo, non le alzi mai le chiappe da quel divano”.
“Senti chi parla. Io domani vado a lavorare, mentre tu stai qui a poltrire”.
Era vero. Lui lavorava per entrambi. Io studiavo per laurearmi e lui portava il pane a casa.
“Diventerai un avvocato di successo, Sara e poi mi devi mantenere quando tornerò io a studiare”, mi diceva quando avevo di fronte un test difficile e mi scoraggiavo.
Eravamo arrivati a New York, lasciandoci il passato e Omaha alle spalle. Io con la mia borsa di studio per il college e lui con un contatto per andare a lavorare in un cantiere vicino al ponte di Brooklyn. Stavamo insieme dal liceo e persino la Grande Mela non era riuscita a separarci.
Alla fine nessuno dei due era sceso quella notte. La pattumiera poteva aspettare. C’eravamo infilati a letto e i baci avevano cancellato i battibecchi. Poi la mattina lui si era svegliato e prima di uscire mi aveva portato il caffè a letto. Bollente e amaro, ma addolcito dal suo sorriso.
“Ci vediamo stasera”.
Ho riaperto gli occhi e invece delle pillole ho preso la pattumiera e la bottiglia di Whisky. Mi sono infilata il giaccone e sono scesa in strada. Stavo buttando il sacco assieme agli altri a bordo del marciapiede, quando ho visto Rudy. Stava rovistando nei sacchi.
“Cazzo fai. Ma davvero vale la pena di mettere le mani nella spazzatura? Che schifo. Mi fai schifo”. Ma lui non si era fatto distrarre. In silenzio, con metodo, passava da un sacco all’altro e ne estraeva lattine o bottiglie che sistemava nel suo carrello. Non era tipo da intavolare conversazioni. Agiva senza perdere tempo: “Quello che è spazzatura per qualcuno è un tesoro per qualcun altro”, mi aveva detto guardandomi per un attimo negli occhi. Era magro, alto, nero di pelle, e balbettava. Ma aveva carisma e occhi intelligenti che mi avevano catturata. E così gli sono andata dietro. Bevevo e blateravo e lui raccoglieva.
Per ore l’ho seguito e verso l’alba mi sono seduta su una panchina sulla riva dell’Hudson. Ho dormito per non so quante ore e ho sognato Jo. Mi ha svegliato il rumore di latta e vetro la notte dopo e di nuovo ho visto Rudy al lavoro.
“Ancora tu. Che casino con quel carrello. Ma che cazzo ci fai con tutte queste lattine?”
“Le vendo. Sono il re dei raccoglitori!”
Non lo avevo mai saputo prima, ma la pattumiera vale soldi. Seguendo Rudy quella seconda notte avevo imparato che a New York c’è una tassa di cinque centesimi su ogni lattina e bottiglia. Una volta consumata una coca, si può riconsegnare il vuoto in cambio di un nichelino. Ma nessuno lo fa e lattine e bottiglie si buttano nella spazzatura. Rudy di giorno riusciva ad alzare fino a venti, trenta dollari, andando a riscuotere nei supermercati. “Cinquanta lattine: due dollari e cinquanta”, è il motto di noi raccoglitori. Si, perché anche io faccio questo lavoro adesso.
In coppia con Rudy lavoro di notte, dall’una fino all’ora in cui i camion della spazzatura cominciano a ritirare i sacchi sul ciglio delle strade, in una corsa contro il tempo per frugare dentro quei sacchi e raccogliere ciò che si può riciclare, che ha un valore. Sono diventata esperta a organizzare il carrello. Appendo le buste alle canne di bambù fissate ai quattro lati e le riempio separando le lattine dalle bottiglie di plastica. Le bottiglie di vetro le metto invece nel carrello. Quando raccolgo non penso. Mi muovo veloce, scaccio i ratti, le blatte, e frugo tra i sacchi cercando di non tagliarmi. La puzza non mi da fastidio, in fondo mi ha salvata. La pattumiera e Rudy sono i miei angeli custodi.
Perché Rudy sia finito sui marciapiedi non l’ho mai saputo. E lui non mi ha chiesto mai nulla. L’ho seguito per giorni e poi ho cominciato a raccogliere anche io. Lui ha tollerato la mia presenza e mi ha insegnato a racimolare i soldi che poi mi spendevo in alcool di giorno. E questo per diversi mesi. Fino a che un giorno ho bevuto davvero troppo, al punto di perdere i sensi.
“Forza Sara. Mi senti? Dove sei finita?” Avevo sentito urlare Rudy ma ero in uno stato di semi incoscienza. Non riuscivo a emergere. E così lui mi ha caricata sul carrello e portata al Pronto Soccorso. Lì mi hanno ricoverata, idratata e nutrita, credo. Non ricordo niente, se non la presenza di Rudy e l’odore di caffè che si porta sempre addosso. Devo aver dormito per giorni e quando mi sono svegliata le prime parole di Rudy sono state: “Non sei morta Sara. Ma un’altra volta potresti non farcela”. Mi guardava da quei suoi occhi profondi e scuri e ho capito che avrei potuto immergermi in quell’abisso. Ho cominciato a piangere e più piangevo più diventavo leggera. Ho visto Jo che mi sorrideva attraverso lo sguardo di Rudy e l’ho salutato per l’ultima volta tra le lacrime.

Can collector in Harlem