Favola

Favola

Giugno 5, 2019 0 Di Marta Cerù

La mia scoperta dell’America è stata simile a una favola. È per questo che il titolo del nuovo libro in uscita per Fazi, “Favola di New York”, scritto da Victor LaValle e tradotto da Sabina Terziani, mi ha attirata come una calamita il ferro (Il titolo originale è “The changeling” e Victor LaValle è uno scrittore newyorkese nato nel 1972 che ha pubblicato quattro romanzi, un libro di racconti e altre novelle, meritando vari riconoscimenti).

L’autore Victor LaValle

La mia Favola di New York è cominciata con una ragazza che vuole fare la giornalista scienziata o la scienziata giornalista, pur non conoscendo l’inglese. E per colmare questa lacuna decide di andare a New York. Appena ci mette piede si accorge che, non solo vuole imparare l’inglese, ma vuole proprio rinascere in quell’isola che è Manhattan, per scoprire che tipo di persona potrebbe essere se parlasse la lingua newyorkese. Nelle favole, la protagonista incontra ostacoli e alleati mentre cerca di realizzare il suo sogno. Nel mio caso ho incontrato il compagno di una vita, sedendomi su una panchina ad aspettare un autobus che era in ritardo. Ogni volta che lo racconto, ad oggi sono passati vent’anni, mi rendo conto di quanto sia stato improbabile e casuale. Eppure, proprio come nel romanzo di Victor LaValle, alcuni eventi improbabili possono definire una vita. Sedermi proprio su quella panchina mi ha condotta a incontrare l’uomo che ho sposato e a diventare madre di due figli. Diventare madre, in un mondo che non era quello dal quale provenivo, mi ha costretta a rinascere in quel mondo. Di pari passo con i miei figli, ho dovuto apprendere la lingua del contesto in cui vivevo. E grazie a loro, ho imparato non solo l’inglese, ma anche le favole con le quali erano cresciuti i miei coetanei americani.

Leggere “Favola di New York” è un po’ come tuffarsi in un lago, del quale si capisce la profondità solo arrivando alla fine del romanzo. Già dalle premesse è chiaro che non si tratta solo di una storia famigliare e moderna ambientata a New York. L’incipit ce ne rende consapevoli in tutti i sensi: “Questa storia comincia a New York nel 1968, durante uno sciopero della nettezza urbana. Nel febbraio di quell’anno i netturbini si rifiutarono di raccogliere la spazzatura per ben otto giorni di fila. I marciapiedi erano ingombri di centomila tonnellate di immondizia che invadevano anche la strada. La mattina i ratti facevano jogging insieme alla gente; i fumi della spazzatura incendiata arroventavano l’aria”. Mi sono chiesta come un romanzo dal sapore di favola potesse iniziare invadendo l’olfatto dell’odore nauseabondo di spazzatura. Eppure la storia riguarda un incontro tra due persone che si sposano e generano il protagonista di nome Apollo. La scomparsa del padre riporta la favola nella realtà dagli odori anche fastidiosi. La coppia non era fatta per durare, ci si chiede? L’accostamento tra i due è improbabile, come il caso che porta Apollo a scoprire la sua passione di bibliofilo e a farne un mestiere? Apollo intraprende da ragazzino l’attività di ricercatore e commerciante di “libri e riviste d’occasione” e presto la sua passione si trasforma in un lavoro a tempo pieno. Il nome sul biglietto da visita, Improbabilia, è una parola arrivata ad Apollo in eredità da suo padre: è scritta su una scatola in cui sono contenuti un biglietto del cinema con il quale suo padre ha portato sua madre a vedere il film Rocky, e un libro, dell’autore Maurice Sendak, intitolato “Outside over there”.

Mentre io da piccola ascoltavo le storie dei fratelli Grimm, che mia madre ci leggeva la sera prima di andare a letto, Raperonzolo, Fratellino e sorellina, Pollicino, La saggia Ghita, i newyorkesi della mia età ascoltavano le storie di Dr Seuss (ne ho scritto parlando di Cappelli), di Richard Scarry e, molto probabilmente, di Maurice Sendak, autore e illustratore di storie ormai famose anche in Italia, come “Where the wild things are” (tradotto come “Il paese dei mostri selvaggi”), o “Outside over there”, un libro che è in un certo senso un coprotagonista nel romanzo di LaValle. Immagino che l’autore sia cresciuto con le storie di Sendak, che io ho conosciuto solo da adulta: classici illustrati come “One was Jonny”, “In the night kitchen”, “Alligators all around”, “We are all in the dump with Jack and Guy” e, appunto, “Outside over there”, un racconto solo apparentemente per bambini, intriso di riferimenti al mondo delle favole nordeuropee, come le ambientazioni dei fratelli Grimm.

In un’intervista on line sul canale Tate, Sendak descrive la genesi di questo racconto collegandola a un viaggio in Germania e all’innamoramento per i romantici tedeschi, come Philippe Otto Runge e i suoi dipinti di bambini. Nella stessa intervista, Sendak descrive i suoi momenti bui, crolli nervosi di “forza monumentale”, che lo hanno steso in terra e avvicinato “al fuoco”. “Se trovo la via attraverso i libri e le illustrazioni, allora so che sarò ok”, racconta l’autore descrivendo il suo processo creativo. Il fuoco di cui parla Sendak è presente nelle sue opere, un misto tra le esperienze del quotidiano, come andare in cucina di notte o imparare a comportarsi, e avventure fuori dall’ordinario nelle quali i protagonisti devono affrontare ogni tipo di pericoli, un po’ come sarà nella vita vera. Non sempre i genitori sono capaci e preparati e, se non sono addirittura loro i nemici, dovranno affidarsi alle capacità e alla natura dei propri figli, senza poterli o volerli proteggere a tutti i costi. Le favole che portano il lettore bambino a inoltrarsi in un mondo dove il pericolo è dietro l’angolo, dove l’errore è contemplato, dove si può davvero imparare, crescere, tuffandosi in quello che non si conosce, a volte anche senza una rete, senza una protezione, sono metafore potenti della vita stessa. Non possiamo sfuggire al dolore, alla sofferenza intrinseca alla condizione di esseri umani, e le favole ci aiutano da sempre a fare i conti con questa elaborazione.

In superficie, la storia dal titolo “Favola di New York” è moderna ed è ambientata in una New York che va dagli anni settanta al nuovo millennio. Nella prima generazione, un uomo è figlio di due genitori alcolizzati: “Una famiglia così o ti distrugge o ti rende più forte; forse fa entrambe le cose. A paragone di un padre che prima ti gonfia di botte e poi ti ruba il primo stipendio, cosa sarà mai dover aspettare il perdono di una donna?” . Nella seconda, Apollo, cresciuto senza padre, incontra una donna, siamo già negli anni 2000. I due si conoscono in una biblioteca, anziché su una panchina come nel mio caso, ma escono insieme la prima volta a cena nello stesso ristorante giapponese, dove anche io fui invitata per un “date”, dal ragazzo che avevo incontrato sulla panchina: “Per fare colpo portò Emma a mangiare sushi in un posto minuscolo in Thompson Street, dove si faceva la fila per entrare. In quella stagione – era autunno inoltrato – aspettare in strada era come stare dentro un frigorifero. Quando infine ottennero un tavolo avevano il gelo fin dentro le ossa e finirono una bottiglia di sakè caldo prima ancora che arrivasse il cibo”.

Una storia che ha un bibliofilo per protagonista, ambientata a New York, intrisa di riferimenti a libri che ho amato, come “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee (ne ho scritto catturando la parola Oltre), che Apollo trova in “una prima edizione, con la copertina originale, in ottime condizioni”. Una narrazione impregnata di favole, piena di coincidenza con la mia personale favola di New York. Non potrà non piacermi, ho pensato immergendomi nella prima parte del romanzo. Eppure, la New York da favola è immersa nella spazzatura. E la storia prende direzioni sempre meno fiabesche. L’evoluzione è quella di un incubo più che una favola, un incubo molto simile a quello narrato nel libro di Sendak, onnipresente durante la narrazione. “Outside over there” racconta di una bambina il cui padre è via per mare (scomparso?), la madre è in giardino a contemplare chissà cosa (depressa?), e lei deve guardare la sorellina senza perderla di vista, un’infante nella culla. Solo che la bambina si distrae, la sorellina viene rapita dai “goblins”, che mettono nella culla un fantoccio, un changeling, e la povera sorella maggiore, quando se ne accorge, decide di avventurarsi nel mondo di fuori, quello degli spiriti maligni, per ritrovare e riportare a casa la neonata.

La storia del bibliofilo evolve in una direzione molto simile alla favola ed è proprio questa sovrapposizione tra una storia moderna in una città moderna e una favola antica con tutte le sue creature immaginarie, a rendere il libro di Victor LaValle un bellissimo romanzo che non si può non leggere a vari livelli, attraversando gli strati di cui è composto. Ha aspetti da racconto fantasy, rimanendo ancorato alla contemporaneità ipertecnologica nella quale ci muoviamo, lasciando tracce che tutti possono seguire e utilizzare a loro vantaggio: “Nelle fiabe i vampiri non possono entrare nelle case a meno che non vi siano invitati. La bestia non poteva varcare la soglia di casa tua se tu non le davi il permesso. Bene: cosa credi che sia un computer o un cellulare? È la tua casa, ci vivi dentro. (…) Li conosco quelli come te. Siete i padri moderni, quelli che devono registrare e documentare qualsiasi momento della vita dei figli. Fate il video del bimbo che dorme e lo schiaffate su internet prima che si svegli. Vi credete padri amorevoli, volete essere migliori dell’uomo che vi ha cresciuti, o che non c’è mai stato. E invece lasciami dire cosa vedo in voi: vedo la vostra povertà, il vostro bisogno di applausi, come se il like di uno sconosciuto potesse compensare la mancanza di amore che avete sofferto da piccoli. Oh, poverini! Praticamente implorate il mostro di divorarvi. Forse i vostri figli devono proteggersi proprio da voi. Lasciate una traccia di briciole che qualsiasi lupo può seguire, e quando vi arriva alla porta di casa rimanete sconvolti e non capite più niente”. Dichiara uno dei personaggi ad Apollo, in cerca di sua moglie.

Il fascino di questo romanzo è proprio l’abile miscuglio, nella New York del nostro tempo, di eventi credibili e quotidiani con episodi ai limiti del surreale, come un travaglio e un parto nel vagone della metropolitana, bloccata per un black out. Una coppia simile a tutte le altre diventa l’emblema di tutte le coppie, un parto è l’emblema di tutti i parti e due genitori vengono al mondo, emergendo dai sotterranei della metro neyorkese. Le loro insicurezze sfociano nella possibilità che un evento d’amore si trasformi in un incubo, a causa della depressione post parto non curata. E la paura dei genitori iperprotettivi è quella stessa paura di un’intera generazione di padri e di madri, soprannominati nel mondo anglosassone genitori elicottero.

“«Come facciamo a proteggere i nostri figli?», chiese Cal con voce sommessa. Apollo osservò la massa soffice sul palmo. «Ovviamente non lo so».
«No, non lo sai. La fiaba di Raperonzolo parla proprio di questo. Pone esattamente questa domanda». (…)
«I due vecchi genitori non fanno nulla per proteggere la loro figlia. Non si sentono coinvolti, perciò la strega rapisce la bambina». (…) «La strega imprigiona la bambina in una torre. Non le permette di fare nulla se non in sua presenza. È un genitore elicottero»”.

Illustrazione di Howard McWilliams

Ammetto che la lettura non è stata fluida. I colpi di scena e i cambiamenti di ambientazione mi hanno sballottata e scossa, mentre la narrazione mi conduceva in una direzione, mi abituava per un po’, e poi mi spiazzava nel momento in cui cominciavo a farmi un’idea. Ma non sono una che abbandona facilmente un libro. E questo romanzo non si lascia mollare. C’è la puzza della spazzatura, c’è un qualcosa di melmoso nel quale ti trovi immerso, eppure sai che da qualche parte c’è un gioiello, c’è il bambino che devi ritrovare, eliminando gli scarti, l’acqua sporca, con discrezione e attenzione, perché i mostri potrebbero rivelarsi esseri benevoli e, al contrario, gli individui apparentemente innocui o protettivi potrebbero essere i veri mostri. Questa continua Dualità nell’unicità è il motivo per cui il libro è davvero bello. Porta alle estreme conseguenze la possibilità di spiazzare, in un modo che succede solo nelle favole, eppure non racconta una favola.

Citazione in apertura del libro di LaValle

È invece un inno alle favole. Un richiamo alla grande narrativa fiabesca. Eppure ha tutti gli elementi di un triller, condito di spunti fantasy. Chiudendo l’ultima pagina del libro, ho pensato al viaggio che l’autore deve aver fatto nello scriverlo. Non dissimile alle discese agli inferi di Sendak, credo, che scriveva per trovare una via, tuffandosi e cercandola in profondità.
Non è lo stesso per chi legge? Se leggendo ci sentiamo immersi e non possiamo fare altro che andare a fondo, assecondare la corrente, nuotare e cercare finché non troviamo la perla e la riportiamo a galla, allora vuol dire che la storia è diventata nostra. Che il libro funziona. Che la nostra vita è un po’ come una favola, e che la favola ci aiuterà a interpretare la nostra vita.