Alba 4: Temporale estivo

Alba 4: Temporale estivo

Agosto 25, 2019 1 Di Marta Cerù

Dopo il Temporale il cielo è ancora denso di nuvole bianchissime e alte. La terra e i boschi sono invece immersi nel grigiore che scaldandosi si dirada. Il vapore sale, respiro del terreno e degli alberi. Sarebbe bello ricordare di cosa volevo scrivere, ma anche le mie parole sono nascoste da una coltre spessa di vapore. I sogni notturni sono già evaporati, altro da me che non posso più afferrare.

Le giornate trascorrono non uguali, dense di vita altrui, mentre respiro pur sentendomi in apnea. Perché? Non ho forse il tempo per scrivere? Non lo trovo, invaso dall’immediatezza dei compiti estivi, dalle parole, tante, delle vite che trascorrono qui la loro vacanza mentre io sono al lavoro. E intanto il sipario rimane chiuso, la luce del sole ormai alto si nasconde ma non del tutto. Si intravede, frastagliando forme compatte. Le linee degli alberi sembrano più vicine, acquistano profondità e dettagli, cavalcano la scena, come comparse divenute protagoniste nel gioco delle parti di questo quadro estivo. L’astro è nascosto e loro si prestano a catturare l’attenzione. Possono ritenersi grate, per questa possibilità, allo scenario grave delle nuvole dense, sempre più grigie perché ancora cariche di acqua preziosa che non manca a rinfrescare l’estate rovente.
Il mare non è di queste valli. Lo immagino lontano e piatto. Non si vede neanche un’isola, come il Monte Nerone sembra ai miei occhi quando emerge dalla nebbia. Scorgo a malapena la linea piatta di un lontano orizzonte, poi chissà. Cosa ricordo dietro questo confine?
Cosa è gia sfuggito nell’oltre?
Ragazzi, uomini che ho inseguito, che ho cercato per sentirmi vista, amata, tutti come se fosse uno, mio padre, il metro, la misura del sistema unitario familiare, con la quale confrontare vite di altri uomini, più o meno all’altezza, ma sempre mancanti di quel tanto che bastasse a farmi sentire intera, amata per chi ero e basta, non per chi mi atteggiavo a essere.
Il Temporale ieri sera ha spento le luci. Abbiamo acceso le candele, capaci di tranquillizzare gli animi. Le luci tremolavano per via dei fiati spesi a parlare, raccontare, esporsi e farsi conoscere. Nelle tavolate estive non siedo. Sono spettatrice e artefice dei contenuti che entrano a riempire i piatti, cibo necessario ma non sufficiente a creare l’atmosfera giusta. Il resto sono le persone, il loro esserci e la loro narrazione che intavola il dialogo, la possibilità che esista uno scambio. Non c’è nessuno che muove le fila. Non ce n’è bisogno. Lo spazio e il tempo bastano. Il nutrimento e l’estro della cuoca diventano quasi superflui. A volte lo scambio emotivo, l’intreccio delle storie che emergono dal confronto con l’altro, le parole bastano, sono sufficienti al tutto, a che il tutto evolva e prenda forme inaspettate, nuvole cangianti, schermi del sole estivo, in vacanza anch’esso quando scoppia un Temporale.

È già mattina? I tuoni squarciano il silenzio dei lampi che annunciano la pioggia incombente. È in arrivo da ovest, dove il cielo è plumbeo, di un grigiore pesante, che sovrasta il tetto, per spingersi verso Est, dove ancora l’azzurro tenta di resistere, nello sforzo di annunciare una bella giornata di sole.
Ora non più. Il celeste ha ceduto. La luce timida si ritrae sotto la coltre spessa di nuvole pesanti, pronte a scaricare la pioggia. Se ne sentono le gocce nel bosco, hanno già cominciato a cadere, come lacrime silenziose dal volto dell’austero castello di Petriolo. Lo chiamano ‘Castello del diavolo’ e i motivi sono tanti quanti le persone che me li hanno raccontati.

Più si avvicina il fronte della pioggia e più il suono delle gocce, un fruscio delicato, contrasta il tuonare pesante, rassicura gli animi tesi, in allerta, parati ancora un po’ tra le calde lenzuola della notte estiva, che è ormai trascorsa e fuggita, rapendo sogni pesanti e cupi.
Ancora lampi, altri tuoni, sempre più vicino lo stacco tra gli uni e gli altri, ad accompagnare la pioggia ormai qui, ormai ora. Ci siamo, alza la bacchetta un direttore, tutto si ferma per qualche attimo sospeso, comincia leggerissimo un rullante, accompagnato da fronde soffiate dal vento. L’aria entra nelle canne fumarie e soffia, creando un suono basso e continuo, come un didgeridoo australiano. Il vento si insinua nel comignolo, percorre il canale di pietra, arriva nel cilindro metallico della canna ed esce, creando un suono continuo e amplificato dalla cassa di una dimora antica. Il vecchio riparo di un tempo, per le foglie del tabacco messe ad essiccare, ora è la casa di anime giovani, troppo giovani per essere stese ad asciugare, protette da un Temporale, la cui tensione carica di elettricità l’aria e la investe di un concerto sinfonico.

È il riparo che costringe l’anima a prosciugarsi, a morire lentamente? O è la paura? Il terrore di affrontare la morte mette al riparo dalla vita, chiude i sensi ai moti naturali, ai movimenti del cielo, chiude i pori nell’illusione di proteggerci, irrigidisce le membrane, impedisce l’ascolto e il sentire più immediato. Se non si ha paura di morire, la vita è una sinfonia composta per un’orchestra dove non manchi nessuno strumento. E quando il ticchettio delle gocce si fa più forte, è su di noi, lo percepiamo in tutte le sue frequenze, è allora che riceviamo il dono delle lacrime, versate anche per noi, con noi, da noi.
In sintonia.
In armonia.
Il sole appare e scompare anche per noi.
Viene così da trattenere il fiato, silenziare il nostro canto, non è ancora il momento perché lo strumento nostro si faccia sentire. Ascoltami grido in silenzio al volto impassibile che ricorre nei miei incubi.
Ascoltami, annuncia il tuono all’alba.
Ascoltami, risponde la pioggia ormai qui, forte, decisa, ticchettante sui coppi, non più fruscio lontano sulle foglie.
Ora è nuvola che si riversa al suolo, muro che scherma il sole, apparso e scomparso. È una verticale di fili di seta fitti, preparati sul telaio di un quadro collinare che volge a diventare un acquerello. Migliaia di fili si tendono, dal cielo alla terra, e tra essi passa l’aria del mattino, li mette in vibrazione. È così che entra l’arpa, strumento solista del Temporale estivo, accompagnata dal rullio dei tamburi, dal fruscio dei piatti composti da foglie leggere, dalle voci libere degli uccelli, dai respiri assonnati di esseri umani, dall’abbaiar dei cani e dai brontolii dei corpi ancora rapiti dal sonno e immersi nei propri sogni.
Il mio era un incubo stanotte, una corsa contro il tempo per soccorrere e salvare una piccolissima bambina allergica a troppe cose, ancora sconosciute. La perdevo di vista per un attimo, me l’avevano affidata, non direttamente, i responsabili, forse i miei genitori o qualcun altro per loro, non ricordo chi fosse. Ma io c’ero e dopo quell’attimo la trovavo riversa, dovevo soccorrerla, rianimarla, lanciare l’allarme. Qualcuno le iniettava l’antidoto e la bambina ricominciava a respirare, riaddormentandosi nel letto dei suoi. Morirà nel sonno? Mi chiedevo. Non saprà mai qual’è la sostanza che può esserle fatale?
Un tuono più forte degli altri mi riporta all’orchestra, che non ha smesso di accompagnare il mio risveglio dal sogno inquietante. Di contro, le melodie soffici sono una musica dolce, allegra, un pianto di gioia, più che di tristezza, un’estasi dell’essere rianimata, presente, viva, superata la paura, mi sento più forte, più vera a me stessa, più consona alla vita. Che nel frattempo ha intessuto sulla mia pelle i suoi ricami, come l’aria ha attraversato l’ordito steso sul telaio che ho di fronte, creando una trama. La guardo e vedo il panorama di sempre, le colline una dietro l’altra fino al Monte Nerone, gli alberi attraversati dai fili piangenti stesi tra le nuvole e il terreno. Gli arpini di questo telaio alzano il filo e lo abbassano perché in orizzontale un filo colorato passi sopra e sotto creando un punto di colore. Sono io questo puntino nuovo inserito in un paesaggio secolare? E dopo di me? Accanto a me?

In quella bambina del sogno, rivedo una giovane me del colore verde speranza, che muoveva i primi passi nel mondo, desiderando viaggiare, imparare a farlo, abbandonando le proprie zone comode, per muoversi e cercare luoghi esotici, sconosciuti, in cerca delle risposte alle domande che preludono a una crescita: Chi sono? Perché vivo? Perché qui, in questa famiglia e non altrove nella vastità di un pianeta così popolato di varietà di specie viventi? Cosa c’è al di là dei confini che mi limitano? E cosa posso offrire con la mia presenza a questo universo già perfetto, armonico, completo, distante eppure parte di me come io di esso?
Ero al riparo di una casa, in un villaggio guatemalteco. L’aria era fitta di pioggia mentre visitavo un paesino indigeno, uno di quelli che provavo a conoscere sotto le ali di una guida speciale. Don Ugo si occupava di progetti di ‘desarrollo’, di sviluppo cosiddetto sostenibile, che coinvolgessero donne dedite alla cultura agricola e tessile: coltivavano caffè e tessevano sui loro telai artigianali, portati in grembo, il subbio un ciocco di legno sul quale erano arrotolati i fili dell’ordito, stoffe dai colori vivi, accesi, energici e intrisi di allegria. Ero con due amiche in viaggio, da sole ma insieme avevamo partecipato a una riunione tra l’organizzazione esterna al villaggio, diretta da quel Don Ugo bianco e italiano, e gli abitanti locali, le abitanti locali, donne tessitrici, discendenti dei Maya, ancora vive e portatrici di vita, nonostante la ‘conquista’… E io, bianca bambina europea, perduta all’interno delle gabbia minuscola del mio corpo in via di sviluppo, e della mia mente in cerca di informazioni, io credevo di poter uscire da quei confini ristretti della mia cultura italiana, pseudo romana, ma provinciale sotto la patina metropolitana, ricavata più dalla lettura che da qualche esperienza diretta. Io, parte di un trio di bianche ragazze implumi, accompagnate da uno zio, che chiamavamo Don Ugo come avevamo sentito altri nominarlo, avevo provato a uscire da me, aggrappata pur sempre alle altre due. Si fosse una perduta, le altre l’avrebbero ripresa, rianimata all’istante, ricordandole ‘ci siamo, non allontaniamoci troppo da noi’.
Ma come si conosce davvero, in questo modo impaurito di esistere? Possono le pagine di un libro, come quello di Tzvetan Todorov e il suo “La conquista dell’America. Il problema dell’altro” (Einaudi Editore), darci gli strumenti per comprendere la realtà dei tentativi di dialogo tra i bianchi europei di allora e di oggi, chiusi nelle loro macchine blindate, e le contadine indigene, dalla pelle piena di crepe, incisa di crateri come suolo lunare? Possono pianeti tanto diversi dialogare? Possono comunicare qualcosa gli uni agli altri, esercitando comprensione? Mi chiedevo questo, spettatrice dietro una pelle troppo bianca, perché una relazione autentica fosse possibile.

Il racconto di Todorov percorre quattro strade maestre, nell’affrontare il problema dell’altro: la Scoperta, la Conquista, l’Amore e la Conoscenza. Le percorrono nel racconto dell’autore cinque personaggi: Colombo, Cortez, De Las Casas, e i due monaci Diego Durán e Bernardino de Sahagún. Cristoforo Colombo simboleggia la Scoperta di un territorio, più che di una popolazione. Scrive Todorov che Colombo “scopre l’America ma non gli americani”. Non riuscendo a riconoscere la differenza degli indiani rispetto alla sua cultura, li considera esseri umani uguali, assimilandoli a se stesso, oppure li considera differenti ma in quanto tali inferiori. Hernán Cortés rappresenta invece la Conquista, quella del Messico e degli Aztechi. La sua comprensione degli indiani è completa ma è volta allo scopo della conquista, attraverso lo sfruttamento delle loro contraddizioni e la manipolazione dei simboli e dei segni, finalizzata alla conquista. Bartolomé de Las Casas è colui che sa Amare. Difende gli indiani e arriva ad amarli nella loro differenza. Non c’è però un’accettazione pura dell’altro, ma una volontà di integrarlo all’interno del Cristianesimo. Infine, i due monaci Diego Durán e Bernardino de Sahagún, sono capaci di Conoscere, occupandosi di salvare i resti delle culture indigene dall’oblio. Anche loro però non trovano una lente capace di risolvere la contraddizione tra vedere l’altro come un essere uguale da assimilare a sé o un diverso da conquistare e sottomettere perché inferiore.

Nel mio tentativo di scoperta dell’altro e di me stessa, in quel viaggio in cui mi vedo oggi, attraverso lo specchio di un’alba attraversata dal temporale, piena di domande ma priva di risposte sensate, allora come oggi, anche io mi avventuravo, togliendomi le lenti dello zio, del maschile di allora, per esplorare con i miei occhi, altre valli, altri villaggi, tra i laghi, e le montagne, percorrendo le prime tappe di un viaggio di formazione. Percepivo i miei confini, accalcandomi tra i pendolari locali, i migranti sulle corriere dense di vita umana e animale: donne, uomini, bambini, polli vivi, uccelli. Mi lasciavo trasportare, senza ali alle quali aggrapparmi, goccia d’acqua in salita e in discesa, a intersecare un filo di seta, per formare un pixel di colore, un punto, una lacrima, nell’ordito dell’universo.