Assai

Assai

Gennaio 1, 2019 0 Di Marta Cerù
Disegno ispirato dal racconto e realizzato da una studentessa del Liceo Artistico di Lucca

“Quanto basta per essere felici”, racconto pubblicato nell’antologia “Racconti nella rete 2018” (Castelvecchi Editore), di Marta Cerù

Alcune parole mi lasciano nello stomaco una sensazione di antico, di profondo, di viscerale. Assai, per esempio, la vedo scritta in una frase e il mio pensiero va ai mughetti. A me in un letto grande, enorme, dalle testate di ferro battuto, curve e spirali che incorniciano due placche ovali dipinte di fiori rosa. Sono piccola, febbricitante, sento un’aria morbida entrare dalla finestra che si apre nella spessa parete di pietra. La brezza è fresca sulla mia pelle bollente. E mi aiuta a riposare, come un tenero massaggio sui miei occhi chiusi. Nella penombra entra la nonna Beppa: “Sono i primi, li ho raccolti per te, perché ti assomigliano”, mi dice. Apro gli occhi e vedo le sue mani nodose di contadina che mi porgono un mazzolino di mughetti. Il profumo si sparge in tutta la stanza, me lo sento addosso come l’aria quasi estiva. Ho davanti tante piccole campanelle bianche appese a steli di un verde vetro quasi trasparente. I fiori sul comodino mi aiutano a dimenticare gli incubi notturni, nei quali contavo bottoni che non finivano mai e l’ansia mi attanagliava. La sicurezza che mi arriva dalle piccole corolle bianche distende i muscoli e posso riposare, cullata da un tintinnio immaginario di cui risuona il silenzio del pomeriggio.

Nonna Beppa, con il fazzoletto in testa, i capelli nascosti, il volto rugoso ma sereno, il grembiule, gli scarponcini per camminare comoda nei campi, nell’orto, l’odore di terra e di patate fritte, il suo petto morbido e denso, ancora giovanile nella forma, un corpo solido, forte, abituato al freddo dell’inverno e alla calura estiva, i vestiti a fiorellini di semplice e morbido cotone, non aveva età per me questa nonna acquisita. La ricordo come una presenza costante delle nostre vacanze al Casino. Lei e Generoso, suo marito, vivevano a pochi chilometri dal casale in Toscana, che i miei comprarono quando avevo solo tre anni. Un casolare quasi abbandonato, diroccato, sulle colline tra San Sepolcro e Pieve Santo Stefano, un luogo lontano anni luce da Aprilia e l’Agro pontino, dove vivevamo stabilmente.

Il Casino era costato assai, quattro milioni e mezzo di Lire del 1973, lo stipendio di mio padre di circa tre anni di lavoro. E diventò da subito la nostra seconda casa, la nostra vera casa. All’inizio della strada bianca che si inerpicava tra cipressi, querce e campi coltivati a grano o fieno, arrivando dopo ore e ore di viaggio lungo la vecchia Tiberina, che attraversava tutti i paesini in fila su un binario obbligato, stretti in macchina, tra bagagli e odore di sigarette e di vomito, felici perché in vacanza, e con le voci ormai stanche per aver cantato per ore “Lassù sul monte nero”, “Il capitan della compagnia”, e altri canti del repertorio montanaro e alpino, io e i miei fratelli cominciavamo a urlare in coro “Siamo arrivati al Casino” e lo ripetevamo fino all’esaurimento.

Ancora prima di intravedere il tetto in coppi, le mura di pietra, la vite in lontananza e il porcile abbandonato, la pergola cadente, il pozzo e il casotto del gruppo elettrogeno, ci fermavamo a salutare la nonna Beppa e Generoso a Villalba. Era la villa rimasta al vecchio proprietario di tutte le terre e i casali di quella zona, incluso il Casino di caccia, ora diventato nostro. Il figlio di quest’uomo antico, che non avevo mai visto, aveva perso al gioco tutti gli averi ereditati, si diceva, o li aveva sperperati tra macchine e donne. Di fianco alla villa, ricavato in un’ala forse un tempo dedicata alla servitù, c’era l’appartamento dei nostri nonni, come avevamo imparato a considerarli. Un portoncino di legno solido e scuro si apriva su una scala in pietra, dritta e buia, venendo dalla luce del giorno. A volte Generoso ci accoglieva nella cantina a destra, una stanza piena di ogni ben di Dio, prosciutti appesi a stagionare, e le conserve che potevano durare tutto l’inverno. L’odore inebriante di sale e salumi ci faceva riprendere dalla nausea del viaggio. Poi salivamo e la nonna Beppa ci apriva la porta in cima alla scala e ci avvolgeva uno per uno con il suo abbraccio, pronta a servirci un piatto di patate fritte nello strutto, che solo lei riusciva a rendere così croccanti e profumate. In inverno o in estate la cucina economica era sempre accesa, per lo meno la sera, non credo che i fornelli a gas li utilizzasse mai la Beppa. A volte la trovavamo a stendere la pasta all’uovo sul grande tavolo di legno e in poco tempo le sue braccia fortissime producevano tagliatelle da appendere ad asciugare sul mattarello.

Dopo averci rifocillati, a qualsiasi ora fossimo arrivati, la Beppa ci salutava e Generoso ci accompagnava al Casino, noi in macchina, lui più spesso a piedi. Credo che dopo essere tornato a piedi dalla Russia, durante la seconda guerra mondiale, non avesse mai smesso di camminare. O forse si fermava solo per mangiare, bere un bicchiere di vino davanti al camino la sera, e andare a dormire. Generoso lo era, di nome e di fatto. Di quella generosità contadina che non ha a che fare con il denaro, con gli oggetti, ma con la condivisione, il tempo, le parole, la voglia di trasmettere qualcosa. Più spesso l’esperienza della semina, del raccolto, di come si fa il vino e come lo si imbottiglia, di come si taglia l’erba con la falce e come si scava un solco, un solco preciso, corretto, profondo il giusto nella terra dura, e pronto ad accogliere semi o piantine e custodirli mentre si trasformano in piselli, pomodori, zucchine, patate, meravigliose pannocchie, o grandi girasoli.

Ma a volte, alcune magiche volte, lo avevo sentito raccontare la sua storia di sopravvissuto, alla Russia, a quella ritirata a piedi, a quel viaggio durato mesi, per tornare a casa, nonostante il gelo, il freddo, il pericolo, la solitudine, la presenza di una morte che colpiva a caso chi decideva di appoggiarsi un attimo, chiudere gli occhi solo per un secondo e rimanere così, fermo e spacciato. Anche lui aveva avuto un cedimento, ci aveva raccontato, ma un suo compagno lo aveva sorretto per qualche chilometro e questa era stata la sua salvezza. Che aveva restituito a un altro ragazzo, portandolo in spalla per chissà quanto tempo, per non lasciarlo lì a morire. Ecco, questo era Generoso e noi gli volevamo bene come a un nonno vero, perché uno dei nonni veri non c’era più e l’altro era latitante.

Eccoci che arriviamo, passiamo il cancello di ferro verde, un po’ traballante sui cardini delle due colonne in pietra, e ci liberiamo dalla macchina, dalla compressione della vita di tutti i giorni, dagli orari, dai ruoli della scuola, della cittadina, dai vestiti puliti e ordinati, da una certa educazione per cui saltare, correre, giocare non è di tutti i giorni. E ci avventuriamo nell’erba alta, entriamo nelle camere della casa chiusa da tempo, che odorano di ragnatele, di legna bruciata, di pareti in pietra dense di ricordi, di buio, e apriamo le finestre, e corriamo nella nostra camera, quella al piano di sopra, a buttare le borse e cambiarci per aiutare mamma e papà a ripulire tutta la casa.

Da questo momento in poi è vacanza, anche se significa pulire il bagno, lavare i piatti a turno, razionare l’acqua, andare a letto con le candele, ché a un certo punto il gruppo elettrogeno va spento, non avere telefono, televisione, passare la cera rossa sul vecchio cotto che assorbe e assorbe e rimane sempre rugoso al tatto, aiutare a riempire cuscini di lana, imparare a lavarla, la lana di pecora, lasciarla asciugare, dipanarla tra le dita a formare nuvolette morbide da mettere nella fodera per fare i materassi, andare a prendere la legna nel bosco, i rametti per accendere il fuoco, camminare ore per arrivare alla vicina fattoria dove prendere il latte appena munto, riportarlo a sera e metterlo a bollire, con il disco di vetro in fondo alla pentola, vederlo formare quella panna densa da tirare su con il cucchiaio e condire di zucchero sul pane sciapo.

Vacanza che significa leggere senza orari, nella calura estiva, al riparo degli scuri che creano un’areazione naturale, perché le spesse pareti mantengono il caldo in inverno e il fresco d’estate. Vacanza che vuol dire banda di cugini, amici, figli di amici, che vengono a trovarci e con i quali inventare giochi, mascherate, recite, esplorazioni nella campagna, muniti di bastoni e fantasia. Vacanza che vuol dire Natale, Babbo Natale che arriva di nascosto dal camino, perché qui il camino c’è, e ci porta un regalo a testa, qualche noce e a volte carbone.

Vacanza che vuol dire mamma che ci insegna a fare l’uncinetto, a cucire, o ci organizza il campo scuola proprio qui, da noi, chiedendo in prestito il pulmino del Comune che ci porta in posti nuovi, a visitare musei, vedere i quadri di Piero della Francesca. Mamma che è incinta di nuovo, c’è un altro fratello in arrivo, per il quale confezionare le scarpine ai ferri, insieme alla sua amica Giosi, incinta anche lei, che ci insegna a cucinare la torta di frutta in padella. Mamma che si inventa ogni giorno una nuova attività, che studia, che legge, che corregge, che è sempre attiva con la nonna Beppa, perché vuole imparare il mondo contadino e farcelo conoscere.

Vacanza che vuol dire la zia Paola che ci porta in passeggiata dopo pranzo alla tomba dei partigiani e che stende il bucato di tutti; lo zio Giovanni che legge gialli Mondadori e fantascienza Urania dalla mattina alla sera e che quando non legge va a cercare funghi o lumache e le mette a spurgare per giorni per poi cucinarle e a noi sembra normale mangiarle quelle lumache piccanti; lo zio Pio che ci porta in piscina a San Sepolcro, e ci spinge a nuotare per un chilometro nella vasca olimpionica, ci prende i tempi e al ritorno ci rifocilla di panzanella al pomodoro; la zia Susanna che a Natale frigge baccalà e broccoli, che a Pasqua dipinge le uova, e che se qualcosa si rompe la restaura con una pazienza che solo lei. E tanti altri parenti, pianeti orbitanti attorno a questo Sole che è il Casino.

Vacanza che significa vestirci bene di Domenica mattina, e incamminarci nel bosco per arrivare alla Chiesetta di S. Lorenzo, dove Don Fabio dice Messa per i pochi parrocchiani di Villalba, delle Caviere, della famiglia degli Innocenti, quelli del latte, che hanno una stalla piena di mucche e una di maiali e i campi attorno a noi, dove passano con il trattore di giorno e di notte, e spargono concime o vengono a tagliare il grano. In chiesa ci uniamo in coro alle vecchiette che intonano i loro inni alla Madonna. E un giorno capita che insegniamo loro i nostri canti, quelli moderni, accompagnati dalla cugina più grande che suona la chitarra. E poi, finita la Messa, ripartiamo a piedi per tornare festanti a pranzo, alle tagliatelle al sugo, ai vestiti scoordinati e sgualciti.

Vacanza che significa papà con noi sempre, che finisce il pranzo e si stira sulla sedia dicendo ah Neguib, espressione di suo nonno Ercole per esprimere la gratitudine e la serenità dopo la fine di un buon pasto. Papà con le parole crociate in mano nel pomeriggio, che nella notte di San Lorenzo, e anche in altre notti di Agosto, quando è finalmente in ferie, si stende fuori sulla coperta, con noi vicini a guardare le stelle cadenti e a esprimere desideri. E qualche volta di giorno ci prende e ci porta in città, a San Sepolcro, a comprare giornale e topolino, o le scarpe nuove, o qualche piccolo regalo, perché è in vacanza che si spende per le cose nuove, per le cose belle. Papà che in estate si mette calzoncini corti e camicia colorata, dalle maniche lunghe per coprire la sua psoriasi, che lavora dietro a Generoso, che ripara, costruisce, crea questa casa che sarà per sempre nostra, pietra su pietra, dove siamo felici assai, e lo saremo sempre, o almeno così crediamo in quel presente ormai lontano.