Broccoli

Broccoli

Ottobre 16, 2019 0 Di Marta Cerù

Le verdure fanno bene, contengono vitamine, nutrimento. A volte sono anche belle da vedere, hanno un aspetto interessante, come i broccoli, la cui struttura è quella di un frattale, una complessa figura geometrica che si ripete, nella forma e allo stesso modo, su scale diverse sempre più piccole. I broccoli vivono nell’orto invernale, sopravvivono anche quando altri vegetali non resisterebbero al freddo. Eppure l’odore di broccoli bolliti appesta la casa. Impregna tutto e, se non arieggiamo bene la cucina, potrebbe toglierci il gusto di mangiarli e nutrirsene.

Ho catturato la parola broccoli nel titolo di uno dei capitoli de “Il risveglio di Alice”, scritto dall’autrice/attrice Cecilia Belletti e pubblicato da Edizioni Progetto Cultura. Mi chiedevo che senso avesse, guardando l’indice prima di cominciare a leggere, in una storia di una giovane donna, alle prese con le sfide di un ambiente di lavoro oppressivo, dove vive una relazione disfunzionale, sottomessa alle angherie di un uomo che sente di amare. Tra le mura dell’ufficio che condividono con lei, i colleghi uomini si permettono ogni tipo di abuso verbale nei confronti del genere femminile. Nel capitolo in questione, Alice si trova a uscire a pranzo con loro. E con il suo diretto collaboratore, l’uomo di cui è innamorata e che non la ricambia, pur essendo attratto da lei fisicamente e manifestandolo in modo fisico e verbale. Unica donna a tavola, Alice ordina un piatto di broccoli e, come in gran parte del libro, riflette con sofferenza sul contatto diretto con un Lui per il quale prova un sentimento che la fa soffrire. Ciò la porta a subire ogni sorta di angherie emotive da parte dei colleghi di lavoro, come se stesse respirando l’odore dei broccoli bolliti. Perché il lavoro, come i broccoli, la nutre, le piace, e le sue competenze sono eccellenti perché lei possa realizzarsi in quel settore, mantenendosi e rendendosi autonoma.

“Il lavoro rende liberi” è una frase drammaticamente famosa per come fu utilizzata dai tedeschi, esposta all’ingresso dei campo di sterminio degli ebrei. Anche nell’ufficio dove lavora Alice è appesa la stessa frase e il Lui che l’ha ostenta non nasconde le sue tendenze filo naziste. L’uomo con il quale Alice fa i conti durante la sua storia di una trasformazione profonda, un risveglio alla vita e alla auto consapevolezza appunto, non nasconde di averla scelta “perché eri bionda, non perché eri brava”. Invece Alice non era bionda, lo è stata per un certo periodo, e lui deve averla vista in qualche foto su Facebook e confonde le acque, come è nella sua natura, che sminuisce, umilia, anche di fronte all’evidenza di una giovane competente che sa fare il suo lavoro. “Tutti sanno che Alice non è una raccomandata, faceva già quel lavoro prima di entrare a lavorare con lui. (…) Ma Alice a quelle parole invece ci crede e piange altre lacrime convulse, disperate, come capita a quelle che non credono in se stesse, che si sminuiscono, che non hanno amore per sé”. Il tono del libro è quello di un dialogo tra la voce narrante e il suo io più profondo. E, attraverso questo dialogo, la protagonista aggiunge tasselli di conoscenza di sé, riuscendo a trasformare la sua vita: da vittima degli eventi, in questo caso le angherie di un uomo che non la rispetta, a protagonista della sua personale felicità e realizzazione.

Tempo fa partecipavo a una lezione di gruppo con il musicista e maestro di violoncello e di vita Paolo Andriotti. Parlava del suo credere più nelle imperfezioni delle esecuzioni dal vivo che nella perfezione delle registrazioni in studio. Lo scopo è comunque far arrivare la musica all’orecchio: “C’è sempre una persona alla quale la musica arriva”, diceva Paolo, “e l’importante è la relazione tra me che suono e chi ascolta, più che la mia esecuzione”. Nelle sue parole è evidente lo sforzo di creare un ponte attraverso la musica tra sé e l’altro, una relazione in cui il linguaggio è quello musicale, le parole sono le note. E tra il musicista e l’ascoltatore avviene un dialogo. Che può anche avvenire con noi stessi, quando ci sforziamo di ascoltare e mettere in relazione le notre voci interiori.

Con le mie compagne e compagni di viaggio nell’esperienza di OrchExtra, a lezione con Paolo Andriotti

Ascoltando le riflessioni del violoncellista Andriotti, ripensavo alla forma di scrittura nel romanzo di Cecilia Belletti (lo leggevo negli stessi giorni), quella di un continuo dialogo interiore tra Alice e i mille pensieri di Alice. Come se la storia si sviluppasse attraverso lo sforzo della protagonista di entrare in relazione con se stessa, parlando al proprio mondo interno e descrivendo come cambia la relazione con un Lui malsano, eppure amato. È proprio così, pensavo, leggere la storia di Alice è come ascoltare un brano musicale dal vivo, con tutte le imperfezioni che aiutano a instaurare la relazione tra chi scrive e chi legge. Che entra da subito in empatia con la voce narrante e il suo mondo scollegato. E lo ricompone a ritmo con la protagonista, capace di acquisire una maggiore consapevolezza di sé, che le consentirà di attraversare e superare una relazione distruttiva con il maschile, al quale il femminile si sottomette per tradizione.

Paolo Andriotti esegue l’integrale delle Suite di Bach dal tramonto all’alba (Foto by Neri Cerù)

Cecilia scrive come se parlasse, e per questo il testo suona con il timbro di una voce femminile, giovane ma non troppo, che come tante di noi donne deve fare i conti con la ricerca di una propria identità nei contesti pensati e strutturati al maschile. Il libro è una freccia lanciata dalla condizione di adattamento totale all’immagine che un Lui ci restituisce, al bersaglio della consapevolezza di sé che consente di affermare nel mondo la propria vera identità. Come ci si arriva? Come si definisce cosa è mio e cosa è tuo nel rapporto con l’altro? Per alcuni può essere un percorso di analisi, per altri di meditazione, in ogni caso ci vuole lo sforzo della ricerca, della disciplina di cercare dentro di sé le risposte. Per la Alice del romanzo, che sembra attingere a una sfera autobiografica dell’autrice, almeno per quanto riguarda il percorso di auto consapevolezza, la via è quella di una pratica che ha a che fare con la recitazione di una frase buddista: “Nam Myoho Renge Kyo”.

In questo Cecilia Belletti è in buona compagnia. Negli ultimi anni ho incontrato altri esempi di storie nelle quali la trasformazione di una persona diventa una rivoluzione umana in senso buddista. Penso a: “Felice per quello che sei. Confessioni di una buddista emotiva” di Rossana Campo (Giulio Perrone Editore). E a “La rivoluzione del coniglio. Come il buddismo mi ha cambiato la vita” di Antonello Dose (Oscar Mondadori).
In entrambi i casi si tratta di narrazioni personali, basate sulla propria autobiografia, del percorso di trasformazione interiore attraverso la pratica buddista. Sono due storie molto diverse, uniche come lo è quella di Alice, e allo stesso tempo hanno in comune la descrizione accurata, vera perché personalissima, di quel processo di trasformazione della propria vita, la cosiddetta rivoluzione umana, che avviene attraverso una pratica che incoraggia lo sforzo per accedere alla propria natura illuminata.

Scrive Rossana Campo: “Ognuno ha la sua storia e ognuno ha il suo modo di sentire le cose, ma di sicuro praticando a un certo punto si diventa un po’ più sinceri con se stessi, e quindi con gli altri, ci si avvicina sempre più a quello che si è veramente, si vanno a scoprire parti ignorate, continenti sepolti dentro le nostre vite”. E ancora: “Quello che il Buddha ha cercato di insegnarci è di eliminare la sofferenza che le cose della vita ci procurano, non di eliminare ciò che fa parte della vita”.

Anche Antonello Dose, conduttore radiofonico della trasmissione di successo di Radio 2, “Il Ruggito del Coniglio”, nella sua autobiografia mette a nudo la sua vita e la sua ricerca profonda nella pratica buddista. Lo fa con leggerezza, come è nel suo stile, ma allo stesso tempo con una profondità del sentire che consente al messaggio di arrivare dritto al cuore del lettore. Il suo racconto, come quello delle autrici Rossana Campo o Cecilia Belletti, è incentrato sulla potenzialità di ogni essere umano di trasformare il proprio carattere, le proprie tendenze di base, per diventare persone più felici, capaci di affrontare le difficoltà e le sofferenze sorridendo come Budda.

1992, Daisaku Ikeda e Nelson Mandela

Gli insegnamenti alla base di questa ricerca sono propagati in tutto il mondo dal maestro giapponese Daisaku Ikeda, che si sforza da oltre sessant’anni di perseguire l’obiettivo della pace nel mondo, convinto sostenitore del dialogo, quello che va ricercato prima di tutto con se stessi. Anche Ikeda ha scritto la sua autobiografia, nei trenta volumi intitolati “La Nuova Rivoluzione Umana” (Edizioni Esperia). Insieme formano il racconto dei suoi sforzi per propagare un percorso educativo e di fede volto a rendere tutte le persone capaci di illuminarsi ed essere felici qui e ora. La motivazione di fondo per questa missione è descritta dal maestro con queste parole: “Il cambiamento del carattere di una persona porterà al cambiamento di un intero paese alla fine dell’intera umanità”. La recitazione della frase “Nam Myoho Renge Kyo”, come fondamento di questa pratica buddista, è stata proclamata dal monaco buddista del 1200 Nishiren Daishonin, che si era illuminato al vero insegnamento del primo Budda Shakiamuni.

Nella mia vita ho sperimentato tanti percorsi, cercando una maggiore consapevolezza di me. E quello che continuo a trovare nel percorso buddista, e che mi mantiene su quel binario, è il profondo senso di inclusione e la continua ricerca di dialogo. Il maestro Ikeda è prima di tutto un maestro del dialogo, ne sono testimoni tantissime pubblicazioni sotto forma di dialoghi con le persone illuminate di qualsiasi fede religiosa.
Nel libro di Dose si legge, a proposito del suo approccio iniziale con la pratica: “Mi aveva colpito però quella che allora considerai una curiosa coincidenza: ero venuto a scoprire che anche nel Giappone del XIII secolo si pregava ripetendo ad alta voce strutture ritmiche in cinque o sei battute. Somigliava troppo alla pratica dello yoga cristiano dei Padri del deserto e ai rituali dei monaci ortodossi che mi era capitato di incontrare negli anni precedenti studiando il personaggio di Alésa Karamazov. Questo doveva avere una ragione. Se culture che non comunicano fra loro usano le stesse forme, ci deve essere un motivo. Queste somiglianze numeriche e ritmiche mi ricordavano tanto i “principi che ritornano” di cui parlava Eugenio Barba spiegando l’antropologia teatrale. È interessante quando culture diverse si evolvono nello stesso modo”.

Succede in tutti i campi della ricerca, nella matematica come nella fisica o in altre discipline scientifiche, si trovano storie di coincidenze per le quali si arriva a formulare la stessa teoria in culture profondamente diverse tra loro, più o meno nella stessa epoca. Che è un po’ come dire che siamo tutti parte di uno stesso pianeta, di uno stesso universo, di una stessa energia, e se troviamo il modo di attingere allo stato in cui percepiamo nel profondo questa energia, allora riusciremo a gustare il sapore dei broccoli e allo stesso tempo sorridere e gioire dell’odore di cottura.