Surfisti

Surfisti

Maggio 16, 2020 0 Di Marta Cerù

Due surfisti in equilibrio sulle onde di un oceano agitato. Questa è l’immagine che mi appare mentre guardo, ma più che altro ascolto, Nicola La Gioia in conversazione con Andrea Gregorio, organizzatore degli eventi e delle attività culturali di SalTo Extra, l’inaspettato Salone a Distanza. Che non doveva essere ma è, perché l’oceano non scompare se noi siamo costretti ad allontanarcene, è lì anche senza spettatori, navigatori, o surfisti appunto. E se poi qualcuno riesce a portarcelo in casa, in piedi su una tavola in cima alle onde, l’immagine non potrà fare altro che catturarci e regalarci l’emozione di quell’equilibrio instabile, di quella freschezza, che la libertà di pensiero, la parola scritta e letta, sono in grado di trasmettere, oltre ogni confine e orizzonte.

SalTo Extra

Oggi ho acceso la diretta del Salone del Libro, SalTo Extra, e sono stata catturata dalla bellissima occasione di ascoltare le voci di coloro che il più grande evento editoriale italiano lo costruiscono, parola per parola: scrittori, editori, lettori, promotori della lettura, della traduzione, della letteratura, coloro che i libri li mettono al mondo, li maneggiano durante i primi vagiti, li odorano, li leggono, li ascoltano leggere, li scrivono, li pubblicano, li raccontano, li custodiscono, li conservano, li regalano. Un regalo lo è davvero il Salone 2020, ce lo hanno consegnato le parole in apertura della diretta on line, scambiate tra il Direttore Editoriale Nicola La Gioia e Andrea Gregorio, il primo che diceva al secondo: “Se il Salone fosse ‘La casa di carta’, Andrea Gregorio sarebbe ‘Il Professore'”.

Nicola La Gioia e Andrea Gregorio

Gregorio ha descritto la progettazione del programma, utilizzando la metafora del Big Bang. C’è la prima fase, spiegava, che è di grande energia, quella dell’incontro tra tutti noi, ognuno con una visione, delle idee che mettiamo in campo, ci scambiamo, per cominciare a immaginare il progetto. Poi comincia una fase due, quella dell’espansione e della sedimentazione che avvengono incontrando gli editori, avendo il privilegio di sapere in anteprima quali saranno le uscite, i progetti editoriali, le linee evolutive previste da ogni casa editrice. E infine arriva la fase tre, una nuova esplosione di energia, in cui si contattano gli scrittori, si mettono insieme i tasselli del programma, ricevendo adesioni o rifiuti, e in modo rapido si forma il disegno di quel mondo che sarà il Salone: per spiegarlo Gregorio utilizzava un’altra famosa teoria scientifica, la Tettonica delle Placche, gli eventi come i continenti in avvicinamento o allontanamento.

Mentre i due ideatori parlavano, raccontando l’evoluzione di un magnifico esperimento dal vivo, li ho immaginati come surfisti. Erano un tutt’uno con le onde e gli spruzzi, in equilibrio alla luce del sole, capaci di cambiare il destino del mondo, focalizzando l’attenzione sulla bellezza instabile ma possibile, in contrasto alla bruttezza dell’odio, quel livore a prescindere in cui brancolano sommersi gli istigatori di violenza e paura. L’oceano d’altra parte è stata la parola chiave della giornata, almeno per me che ero da giorni tesa a coglierla nella mia rete. 

Apro una parentesi. La parola surfisti l’ho catturata giorni fa. Ero in balia della rabbia verso gli ‘odiatori’, tanti, troppi, quelli che si sono accaniti contro una giovane donna liberata, contro un’immagine, che, nel giorno della festa della mamma, avrebbe dovuto instillare gioia e fiducia e invece ha scatenato una masnada di voci dall’ombra. Sono voci onnipresenti nelle profondità oceaniche della rete, dove esistono nel buio di quelle menti che, con le loro parole cieche, attaccano chiunque e comunque.

Silvia Romano

Mi aveva colpito, in difesa di quell’abbraccio, un commento su Facebook del giornalista Lorenzo Tosa, che scrive post in cui evidenzia storie positive, esempi di umanità, di equilibrio, di vite funamboliche in difesa dei diritti, della pace, della libertà di pensiero. L’avevo immaginato come un surfista, in equilibrio con la sua scrittura, che, a proposito di Silvia Romano e della sua liberazione, stilava una lista di persone rapite e liberate negli anni, confrontando le reazioni degli italiani al loro ritorno in patria. La sua analisi cronologica e di genere è potente per la sua semplicità, per capire quanto sia ancora difficile la condizione delle donne italiane, lo sia sempre stata, ma forse oggi ancora di più, e ce lo dicono i femminicidi che aumentano e tanti altri segnali, evidenti o sommersi. Il suo post si concludeva così: “C’è Luca, Alessandro, Sergio. Cos’hanno in comune? sono tutti uomini e tutti rapiti mentre si trovavano lì per ragioni private o interessi personali. Questi nomi non dicono nulla. Le due Simone, Greta e Vanessa, Silvia Romano. Cos’hanno in comune? Sono tutte donne ed erano andate laggiù per aiutare il prossimo. Questi nomi ci dicono tutto. Cosa dite, quando tutto questo schifo sarà finito, possiamo finalmente cominciare ad affrontare sul serio l’enorme, gigantesco, irrisolto complesso d’odio, sessismo e misoginia che hanno i milioni di italiani schiumanti bile e veleno che in queste ore intossicano i social e la vita civile di questo Paese? Meglio tardi che mai.”

Lorenzo Tosa

Chiudo la parentesi sulla parola surfisti, applicata a coloro capaci di restare in equilibrio sulle onde alte, sotto le quali l’odio incalza, coloro che da funamboli riescono a non cadere, grazie alla forza della loro determinazione e della loro preparazione atletica e spirituale, nonostante l’oceano stesso sia pericoloso, sia pieno di predatori, pronti, proprio perché sommersi, ad attaccare, a farti cadere e annegare, in quell’oscurità che è la pratica dell’odio. 

Ocean Vuong e Claudia Durastanti

Il primo surfista che ho incontrato nel Sabato del Salone è stato un giovanissimo scrittore, che mi ha conquistata per la musicalità e la gentilezza delle sue parole, nonché la potenza del suo nome, di radice oceanica appunto. Ocean Vuong, autore di origine vietnamita ma cresciuto negli Stati Uniti, è arrivato in America dal Vietnam a due anni, ha imparato a parlare e scrivere in Inglese a undici, e oggi è uno dei poeti più acclamati a livello mondiale, autore del volume “Night Sky With Exit Wounds” tradotto come “Cielo notturno con fori di uscita” (La Nave di Teseo).

Il volume originale delle poesie di Ocean Vuong

Vuong raccontava le motivazioni profonde del suo romanzo di esordio, “On Earth We’re Briefly Gorgeous”, tradotto in italiano da Claudia Durastanti con il titolo “Brevemente risplendiamo sulla terra”, edito da La Nave di Teseo. Il romanzo nasce come una lettera, quella di un figlio a una madre, che mai la leggerà, non sapendo parlare o leggere la lingua di seconda generazione di colui che lei stessa ha soprannominato ‘Little Dog’. La lettera è ispirata a modelli italiani, la Ginzburg di ‘Caro Michele’ e la Fallaci di ‘Lettera a un bambino mai nato’, ha raccontato lo stesso Vuong. Mi ha colpito la grazia delle sue parole, la commozione del suo volto di ragazzo, surfista in equilibrio, tra poesia e prosa, tra genere maschile e femminile, le sue frasi leggere eppure capaci di pescare nel profondo. Ha citato più volte l’Italia, perché il suo libro l’ha scritto in gran parte in Umbria, ospite della fondazione Civitella Ranieri, un castello, un ritiro per scrittori di tutto il mondo, poco distante dalle mie colline.

Fondazione Civitella Ranieri

Nel periodo in cui ha soggiornato in Italia, l’autore si è trovato a visitare il Palazzo Reale di Milano, ha raccontato, ed è rimasto colpito dalle enormi crepe dovute ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, lasciate in bella vista volutamente, in memoria di quei tragici eventi. “Hanno preservato le crepe, per conservare l’eredità della memoria, anziché ricoprirle con la facciata della completezza e della bellezza. Ho pensato che era davvero potente quell’immagine, mi ha perseguitato e guidato durante il periodo in cui ho scritto questo libro”, ha raccontato Vuong. “Nella traduzione” ha risposto la Durastanti, “ho trovato le spie di questa ossessione nelle tante schegge, nei frammenti di schegge sparse nella narrazione, per le quali non ho trovato tanti sinonimi, proprio per evidenziarne la ricorsività”.

Vuong raccontava la motivazione della storia, che ha scritto in forma di romanzo: unire una partenza dal Vietnam a un arrivo negli Usa, il desiderio di emancipazione diventato uno scrivere contro e dentro la tradizione. Nel descrivere l’influenza della famiglia di origine nel comporre questa lingua, ha dichiarato: “Una delle eredità che riceviamo dagli antenati è il linguaggio, le espressioni. E, da scrittore, sono interessato alle frasi. Per esempio cerco di utilizzare le espressioni tipiche di una lingua come mappe per pensare ai personaggi. Una delle metafore che noi vietnamiti abbiamo in famiglia è quando qualcuno muore diciamo ‘sono in cammino’, ‘hanno fatto i bagagli e si sono incamminati sulla strada’. E così penso a cosa questo dice di un certo gruppo di persone che vede la morte come un viaggio? La morte come la continuazione di un viaggio?  Queste metafore indicano come i corpi vengono visti, e che valore hanno dentro una cultura. Nel romanzo la nonna e la madre nominano il bambino ‘Little Dog’, come un modo per proteggerlo dagli spiriti maligni. Uno spirito maligno sente questo nome ‘cagnetto’ e pensa che non abbia valore, che è così insignificante che neanche si mette a cercarlo e va a caccia di un altro bambino, uno più in salute. Queste donne immigrate, che hanno così pochi beni materiali e ancora meno potere nella società, decidono di usare la lingua, perché è gratis, è immediata. E la rendono un incantesimo per rivendicare un controllo sulla propria vita e sulle persone che amano”. 

Nel libro si sente l’influenza europea, faceva notare la traduttrice, leggendo un estratto di Roland Barthes: “Sapere che non si scrive per l’altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno mai amare da chi amo, sapere che la scrittura non compensa nulla, non sublima nulla, che è precisamente là dove tu non sei: questo è l’inizio della scrittura”. Con ciò ha evidenziato come il romanzo sia una lettera, scritta a una madre che non leggerà quello che scrivi. In luce ci sono i rapporti tra confessione e rivelazione, tra l’occultamento e il nascondersi, come aspetti tipici delle storie di formazione, ma anche di quelle storie che riguardano l’evolversi di una identità.

Della Dualità dell’essere dove non si è ho scritto citando Ahmet Altan, mi viene in mente mentre ascolto l’oceano di parole di Vuong: “Qualcosa di simile avviene anche per le vite degli immigrati e dei figli degli immigrati. Spesso i nostri genitori migranti ci insegnano a nasconderci, a oscurare il corpo, l’identità per assimilarci nella cultura dominante, per lavorare, chinare la testa e scioglierci e confonderci nella società. Little Dog vuole essere conosciuto, visto come un artista. E uno dei modi per essere visti e conosciuti è creare una visione personale, tramite la propria immaginazione. Il paradosso è che spesso la seconda generazione tradisce la prima. Tradiamo i nostri genitori proprio per articolare in modo sovversivo i loro stessi sogni. Questo paradosso è la tensione dalla quale nasce Brevemente splendiamo sulla terra: raccontare e confessare significa anche rendere vero il prezzo che ci è voluto per arrivare qui. Una delle domande che avevo era, qual è il potere del linguaggio, perché se si scrive una lettera a una madre che non la leggerà mai, la pressione si riversa tutta sulla lingua stessa. È abbastanza per lo scrittore? È un terreno sostanziale su cui posarsi? Il linguaggio è davvero un’architettura in cui possiamo investigare il mondo a fondo? E per quanto sia una lettera verso una madre, è anche uno specchio verso il figlio”.

Il salone di quest’anno ha un titolo che è una premonizione, “Nuove Forme di Vita”, perché in modalità sperimentale lo è davvero una nuova forma di vita. Ci ha raggiunti nelle nostre case portandoci le voci in lingua, degli autori o delle autrici, che dialogavano con i loro traduttori o traduttrici. E da esploratrice di un territorio sconosciuto proverò a raccontarlo, come mi viene, come se fossi lì, un anno fa, con la mia penna in mano, muovendomi da uno stand all’altro, da un incontro speciale a uno ancora più speciale, da una parola all’altra, su e giù con le onde, poi ancora in alto e via, seguendo il flusso di un’energia che se me ne lascio attraversare so che mi porterà verso cose belle e vere.

Seti Telescopi

Di altre onde, e altro oceano ha parlato invece Jovanotti con La Gioia, riferendosi all’immersione che avviene, sia quando si è nel deserto, soli con se stessi, sia quando si è di fronte a una folla, due situazioni agli antipodi, ma proprio perché ai due estremi di uno spettro, simili nel modo di farne esperienza. Jova raccontava del suo Docufilm “Non voglio cambiare pianeta” (una esclusiva serie di RaiPlay). È il racconto filmato del suo viaggio in bicicletta, lungo la Panamericana, facendo esperienza di solitudine e di ascolto del proprio respiro che diventa spirito, e quando questo succede, difficilmente si può tradurre il sentimento, l’unione con l’onda, direbbe forse il surfista, o l’essere un tutt’uno con il filo, come descrive magnificamente Philippe Petit nel suo breve ma essenziale “Trattato di funambolismo” (Ponte alle Grazie Editore), del quale ho parlato partendo dalla parola Sospensione.

Nicola La Gioia dialoga con Jovanotti