Gomitolo

Gomitolo

Giugno 5, 2021 0 Di Marta Cerù

Le parole sono come finestre, e io tendo a tenere troppe finestre aperte. Quelle sullo schermo di un computer, come mi fanno notare spesso i miei figli, ma anche quelle delle relazioni. Non mi è facile capire quali sono quelle da chiudere e quali da lasciare aperte. A volte basta che il tempo faccia il suo corso, per capire quali serrare per metterci al riparo dal fresco della sera. A volte però capita che ci si ritrovi sbalzati fuori dalla propria casa, o imbarcazione tra le onde, senza chiavi di accesso per rientrare, tutte le finestre chiuse. Come si torna al proprio centro in questi casi? Come si riesce a comunicare quello che davvero si sente, si prova, si vive? Come si presta ascolto al proprio mondo interno senza lasciarsi confondere dalle influenze esterne? O viceversa, come si rimane aperti all’altro da noi, senza chiuderci nell’autoreferenza che ci impedisce di conoscere davvero?

Con un gomitolo, mi verrebbe da dire, o almeno a me è successo così, quando questa parola mi è stata regalata da un amico stellare. Una di quelle persone che incontri navigando tra le prime esplorazioni nell’oceano della conoscenza e capisci che ti accompagneranno a vita, anche se le rotte prima o poi si separeranno. Ci siamo ritrovati in un locale di nome Lumière, e l’atmosfera era davvero quella di una Parigi del secolo scorso, almeno ai miei occhi, o forse bastava solo il mio sentirla, quell’atmosfera, perché fosse davvero così. Due tavolini rotondi, dei quali uno solo era il prescelto, quello attorno al quale siamo collassati, io, Andrea ed Emilia, prima che ci raggiungessero Stefano ed Emma. Siamo stati raggomitolati per una serata che avrei voluto non finisse, tanto ero grata di trovarmi con gli amici dei tempi di fisica, i fisici perduti come lo sono un po’ anche io. Si era verificata una di quelle coincidenze alle quali prestare attenzione. Attenzione alla C, quella del Caso che si affaccia alla finestra del nostro sentire, in un tessuto in cui il caso è la trama e il destino è l’ordito. 

Il caso a volte ci manifesta degli eventi altamente improbabili e per questo ancora più speciali e degni di nota. Come per esempio l’incontro  delle traiettorie in un preciso punto dello spazio tempo, di amici che viaggiano senza scambiarsi coordinate spaziali, e non si sentono nello scorrere ordinario del tempo. Eppure si lanciano messaggi in bottiglia e li ricevono nello stesso istante. Sembrano legati, anzi lo sono, da un filo dipanato da un’unica matassa, gomitoli spaiati che ogni tanto fa bene ritrovare insieme, per ricamare un elemento della trama.

Dunque, ci si ritrova al Lumière, e si parla di perdite, di sofferenze, di nuove opportunità, delle nostre vite disperse, che bastano piccoli dettagli per recuperare in fretta quelle vite, tanto il filo è comune. E poi si ricama del nuovo, progetti, sogni, sorrisi incoraggianti, abbracci fugaci, anche se non si potrebbe. E dalla serata nasce una trama colorata, come una presina di quelle che compone all’uncinetto l’amica Alessia, anche lei fisica. Ne ha intessute tante durante il lockdown, tra una quarantena e l’altra, e le ha regalate a noi amiche gatte, non una per una ma sette per ognuna, le ha stese su un tavolo, una tavolozza di colori composti e ce le ha fatte scegliere, regalando la sua trama ai gomitoli anche nostri.

Nel locale romano invece, la presina ce la porge in qualche modo Dario, assieme al vino che ci offre e alla sua parola, tenacia, alla quale associa un sorriso disarmante. Ci racconta delle sue avventure, prima in Spagna e poi a Roma, dei suoi progetti basati sulla capacità di tenere botta, non arrendersi, anche in tempi nei quali la ristorazione fatica a rimanere a galla. Ed è seguendo questo filo che Emilia, a fine serata, mi regala la sua storia di tenacia. Che le ha permesso di salvare un’altra vita, lei che si è sempre curata degli ultimi, quelli che non potrebbero farcela da soli. Come il figlio di un amico senegalese, che aveva avuto un incidente a Dakar e doveva essere operato alla testa. La situazione era molto grave e il padre l’aveva portato in Francia, nella ‘Ville Lumiere’, dove però non aveva abbastanza soldi per l’intervento. I medici lo tenevano in coma farmacologico in attesa che ci fossero i soldi per l’operazione. Emilia non capisce, pensa che forse non ci sono chance, che non sia solo un problema economico, ma si muove lo stesso, organizza una raccolta fondi, apre un mutuo e i soldi li trova. L’operazione si fa, il ragazzino guarisce, ora sta bene. ‘Ti rendi conto?’ Mi dice. ‘In Francia. Non lo operavano solo per una questione di soldi. L’avrebbero lasciato morire. Il padre era ormai a un passo dal riportarlo a casa per farlo morire nella sua terra. E invece ora sta bene, sano come se nulla fosse successo’. Questa è la trama sulla quale mi incanto. E sulla frase di Emilia: ‘È vivo, sta bene, ti rendi conto? Non lo volevano operare in Francia perché non poteva pagare. L’avrebbero lasciato morire. In Francia’.

Altro che la ‘Ville Lumiere’, penso tra me e me, mentre vedo la luce nel volto stanco di Emilia, incredulo, sconvolto, e felice allo stesso tempo, di ripetermi la stessa frase, il sunto di una vita salvata così, grazie alla profonda umanità che l’ha da sempre caratterizzata e a una tenacia fuori dal comune.

Un po’ come un altra persona che associo alla parola gomitolo, quel Saverio Tommasi fondatore del progetto SHEEP Italia, che si presenta con lo scopo di intrecciare storie e dare calore: ‘SHEEP nasce per insegnare a lavorare a maglia a persone che hanno avuto qualche inciampo nella loro vita: dalla solitudine alla malattia mentale, dai rifugiati all’emarginazione sociale. Dove c’è qualche casino, a noi piace esserci’ si legge sul sito di questa organizzazione alla quale è possibile donare il 5 per mille. ‘SHEEP prova a dare fiato anche a progetti altri, diversi, che in qualche modo hanno a che fare con tutto questo, ne sono i figli, o le cugine. Per questo durante il lockdown avevamo promosso le “spese solidali”, una decina di spese settimanali, alimentari e di prodotti per l’igiene, che facevamo e portavamo a domicilio a chi ne aveva necessità’.

Saverio Tommasi, giornalista per Fanpage.it, ha recentemente pubblicato il libro “In fondo basta una parola” per Feltrinelli, uscito a maggio 2021. Un libro che contiene cinquanta parole per interrogarsi, che portano con sé piccole storie di disaffezione quotidiana all’indifferenza, perché la rivoluzione gentile può partire soltanto da parole dannose al conflitto. Perché una parola può ferire, ma può anche salvare. Lo scorso inverno ho seguito i post nei quali raccontava le spedizioni per andare a consegnare coperte ai senzatetto, realizzate con i quadratini ai ferri o all’uncinetto che ogni persona aveva donato al progetto. ‘Ogni persona può farlo ovunque abiti, a casa propria, sola o in compagnia, e poi spedirci i singoli quadratini che noi poi uniremo a formare delle coperte, oppure può spedirci direttamente dei quadratini già uniti’, si legge sul sito. ‘Noi di SHEEP distribuiremo poi queste coperte a chi vive per strada e vi racconteremo tutto con foto e video. Non sarà questa una soluzione definitiva, non salveremo così il mondo, però daremo un po’ di calore – speriamo aggiuntivo – a chi nella vita ne ha ricevuto sempre troppo poco’.

La vita è dura ma la fisica è peggio, dicevamo a vent’anni mentre ci scontravamo con gli scritti di fisica, con gli esami di quella facoltà che ci ha formati fisici e perduti nella fisica. Scherzavamo in quegli anni, mentre arrotolavamo filo nei nostri gomitoli dipanando la matassa che ci accomunava, la passione per la scienza delle scienze, quella fisica che ci aiutava a comprendere il mondo. Ora è chiaro che è la vita a mantenere il primato delle difficoltà e delle oscurità difficili da spiegare, da comprendere, da superare, da attraversare. Ma è la fisica che ha formato me e gli amici conosciuti allora, sparsi in ogni dove con i loro gomitoli. Ed è a quella che continuiamo ad aggrapparci, come a un salvagente, tra le onde della vita che è dura per tutti, ma per qualcuno molto molto di più. Quando ho chiesto a ognuno una parola da lasciarmi, Andrea mi ha guardata sorridendo e prima di salutarci mi ha lanciato il filo del suo gomitolo. Nello svaporare del vino, dei nostri sguardi, dei nostri abbracci rubati, si è stretto qualche nodo in più per alleggerire e sostenere la stanchezza, qualche punto speciale di trama per diramare la confusione. E, ancora una volta, è stato importante sciogliere e riannodare fili, fino al prossimo incontro, chissà dove, chissà quando…