Pantagruelico

Pantagruelico

Febbraio 1, 2019 0 Di Marta Cerù

L’amico scrittore Andrea Mauri mi lancia l’aggettivo pantagruelica, riferendosi a una cena che ho mancato. La parola mi avvolge con i profumi e le risate di un banchetto e riporta alla memoria un ricordo lontano, una persona di nome Abdoul e la sua terra d’origine, il Senegal.

Il villaggio in Fouta
La famiglia di Abdoul

Apro una parentesi. L’aggettivo deriva dalla storia di Gargantua e Pantagruele, della quale ho una memoria sbiadita, legata alle lezioni di letteratura francese ai tempi del liceo. Non ho mai letto i libri che François Rabelais pubblicò tra il 1532 e il 1564, firmandosi con lo pseudonimo e anagramma di Alcofribas Nasier. Con un linguaggio semplice e vivace, l’autore voleva raccontare a un pubblico popolare le avventure di due giganti che divennero il simbolo della società francese della prima metà del Cinquecento, l’emblema di un pensiero illuminato e Rinascimentale contrapposto ai tempi oscuri del Medioevo. I due giganti si aggirano per la Francia affamati non solo di cibo ma di conoscenza. E tutta l’opera è un’esagerazione di appetiti soddisfatti da quantità inimmaginabili di cibi e bevande, ma anche da studi incredibilmente lunghi e approfonditi di libri veri e inventati. In questo senso i romanzi di Rabelais sono il primo esempio di ‘Pseudobiblia’ in letteratura, cioè citazioni inventate miste a citazioni vere. Leggo dal blog di Lucius Etruscus, incentrato sul tema degli ‘Pseudobiblia’: “Il più grande assembramento di queste invenzioni letterarie”, si riferisce ai romanzi di Rabelais, “si trova nel capitolo VI del libro secondo, quando Pantagruele ha finito gli studi a Orléans e decide di visitare la grande Università di Parigi. Arrivato nella città, il gigante è affascinato dalla «libreria di San Vittore», della quale procede ad elencare più di 140 titoli. È un’esagerazione letteraria, un elenco che mette a dura prova il lettore più appassionato, ma d’altronde, com’è ben specificato nel prologo, questo è un «libro pieno di pantagruelismo», quindi tutto ciò che vi si racconta è esagerato! I titoli dei libri di questa “libreria” sono decisamente espliciti ed alternano il latino al francese. Abbiamo così il De modo cacandi, il Cacatorium medicorum e La Profiterolle des Indulgences; il De modo faciendi boudinos e Le Cul pelé des vefves”.

Chiusa la parentesi sull’origine dell’aggettivo, ciò che affiora alla mia coscienza, mentre afferro la parola, è la storia di un amico che non è più di questo mondo ma che ha potuto realizzare il suo sogno di vita in Italia negli anni novanta, e che mi regalò una scimmia di legno, oggi per me ricordo di un viaggio alla scoperta del Senegal. La scultura la conservo nella mia casa/agriturismo, dove mi guarda appoggiata alla parete, diritta, in piedi, le curve del legno accennano il seno sostenuto da una mano, in quel gesto materno di prepararsi ad allattare. Ricambio quello sguardo ogni tanto, preparando le colazioni, e penso ad Abdoul (il suo nome e cognome era in realtà Djigo Djibi), che rivedo nei volti dei ragazzi senegalesi, spesso di fronte a una libreria, con i loro libri in vendita.

Piccoli editori all’ombra della Nuvola di Fuksas

Abdoul era in Italia da poco, erano i primi anni novanta, non so quanto ci avesse impiegato a raggiungere la terra del suo sogno e come fosse arrivato. Ho potuto percepire nel tempo lo strappo insanabile e doloroso che lo aveva separato dalla sua famiglia di origine lasciata indietro. Lo avevo conosciuto perché la mia amica Emilia se ne era innamorata e lo stava aiutando a restare in Italia, ad avere le carte in regola. Avevo 25 anni, mi ero appena laureata, e cominciavo un dottorato che non mi permetteva certo di avere un collaboratore domestico, ma i miei mi avevano lasciato l’appartamento dove vivevo a Roma e, quando l’amica mi chiese se potevo assumere Abdoul e farlo stare da me per un po’, il tempo necessario perché il semaforo della strada per uscire dalla clandestinità diventasse verde, dissi ‘va bene, che devo fare?’. Lei non aveva i mezzi se non quello del matrimonio, mentre io potevo assumerlo, come una sorta di ‘maggiordomo’.

Ero spesso via, muovendo i primi passi per i concorsi del dottorato in Fisica, non sapevo ancora in quale laboratorio sarei finita e dove, e lui trovava la sua via per integrarsi a pieno diritto nella Capitale. Grazie al permesso di soggiorno trovò presto un altro lavoro, poi un altro, e non ci volle molto perché da persona circospetta, riservata, timida, poco loquace, imparasse l’italiano e si facesse conoscere come amico, con interessi, impegni, un nuovo lavoro, la sua musica e la sua cultura da condividere. Soprattutto per me Abdoul era il compagno della mia amica Emilia.

La mia amica Emilia all’arrivo nel villaggio

Una volta diventato regolare in Italia, poteva tornare in Senegal e portarla a conoscere il suo paese, la sua famiglia. Io avevo davanti un’estate complicata di decisioni da prendere sulla mia vita e lei mi disse: “Vieni con noi. Forse il viaggio ti può aiutare”. E in effetti, in quegli anni, tutto quello che desideravo fare era viaggiare, conoscere altri mondi, ma forse in Africa, da sola, così senza un perché, un motivo, un invito di un amica, non ci sarei arrivata. La scimmia, Abdoul me l’aveva lasciata in casa, alla fine di quel breve periodo in cui aveva ‘lavorato’ per me. Era stato il suo modo per ringraziarmi. Ma l’invito a tornare con lui in Senegal e conoscere la sua famiglia era ben altra cosa. Quasi un invito a nozze. Così è stato che mi sono ritrovata ad accompagnare la mia amica, come una chaperon di altri tempi. E a partecipare a un banchetto pantagruelico nel bel mezzo del deserto del Fouta, quasi al confine con la Mauritania, nel villaggio chiamato Dimat dove viveva il padre di Abdoul.

La porta dell’inferno

Atterrate a Dakar, avevamo visitato l’isola di Gorée, fin dal 1400 soprannominata la ‘porta dell’inferno’, perché era il posto da dove venivano imbarcati i prigionieri in partenza per il Brasile o i Caraibi, forza lavoro per i campi di cotone e canna da zucchero. Il nome dell’isola voleva dire in origine ‘ventre materno’, eppure oggi è il simbolo della terribile storia dello schiavismo, basato non solo sugli interessi dei colonizzatori ad acquistare merce umana da deportare nelle Americhe , ma anche sulla partecipazione della popolazione africana in quel tipo di economia che si basava sulla tratta di schiavi venduti ai portoghesi, agli olandesi, agli inglesi, ai francesi, agli spagnoli, agli svedesi, ai commercianti proprietari di navi, che li ammassavano nelle stive, perennemente incatenati l’uno all’altro, con poco cibo e acqua, soggetti alla brutalità e alle sevizie dell’equipaggio, prima di diventare proprietà degli acquirenti.

Villaggio di pescatori a Dakar
Mercato del pesce

A Dakar avevo conosciuto amici di amici, ospite in stanze di studenti che si ritrovavano la sera a condividere i libri sui quali studiare, avevo visto mercati, stoffe dai mille colori, respirato l’aria mista di oceano e di smog, per il traffico intenso di macchine e per la densità di popolazione formicolante sotto il cielo di un porto dai ricordi strazianti.

Amica di Abdoul a Dakar

Dalla capitale eravamo partiti in macchina per andare a visitare il deserto del Fouta, dove andare a conoscere la famiglia di origine di Abdoul, suo padre, sua madre, le altre madri, gli innumerevoli fratelli, cugini, sorelle, cugine, nipoti, rami frattlli di una famiglia che era un villaggio intero: Dimat. Avevamo una macchina in affitto, i nostri zaini contenenti abiti pressoché inutili, la scorta indispensabile di acqua da bere. Rivedo all’orizzonte una terra color ocra, alberi sparuti dall’ombra preziosa, cespugli bassi, lungo l’unica strada asfaltata che corre lineare e dalla quale immagino si diramino sentieri sterrati.

Paesaggio in viaggio verso il Fouta

All’arrivo nel villaggio ci assalgono i bambini che, sono sicura, non hanno mai visto una pelle bianca. Sono tanti, ci seguiranno sempre in quei giorni fermi nel tempo, nei quali mi trovo catapultata quasi senza consapevolezza di dove fossi, cosa cercassi, presente all’appello per aver detto un ‘si’ a un’amica.

I bambini del villaggio
Bambino vestito dell’abito da indossare dopo la circoncisione

L’Africa è dura in quell’entroterra arido. È calda, assolata di giorno, una lunga pausa che termina con l’arrivo della notte, quando ti ritrovi su una stuoia, all’aperto, a cercare il sonno che non arriva, mentre ascolti i respiri degli altri, svegli o immersi nei sogni, e pensi che il cielo è davvero scuro, più scuro di quello che sei abituata a osservare, e allo stesso tempo pieno di luci più brillanti che da noi, che è un cielo diverso, nel quale cerchi nuovi punti di riferimento, ma è comunque lo stesso cielo che guardavi da piccola, stesa accanto a tuo padre, in estate, ad aspettare una stella cadere per esprimere un desiderio. La notte sembra infinita quaggiù, assieme a persone che non conosci, sola con i tuoi pensieri, ma il ricordo della stella cadente concilia il sonno, ti addormenti per quel tanto che basta al sole per risvegliarti al nuovo giorno. Rileggo dal diario di quel mio viaggio, alcuni ricordi scritti a caldo (a Settembre del 1996) in una pagina intitolata “Il Charret”:

Viaggio in carretto verso il confine con la Mauritania

Al risveglio è difficile accettare di dover cominciare un’altra giornata a Dimat, villaggio ancora non raggiunto dall’elettricità, che si trova nella regione di Fouta, zona di deserto senegalese.
Gli abitanti della casa di Abdoul sono già in movimento, abituati a lavarsi con la poca acqua del pozzo e a cercare bagni di fortuna. Probabilmente sono ridicola ai loro occhi, o quantomeno strana, mentre esco dalla stanza con il mio pigiama addosso e l’occorrente per lavarmi in mano : i riti quotidiani e le mie abitudini mi permettono di non lasciarmi andare completamente a un abbandono che verrebbe spontaneo in un posto dove anche l’essenziale sembra mancare ai miei occhi.
Al solito mi accolgono le voci dei bambini che indicandomi e ridendo gridano “dubab” (bianca). E io, al solito, cerco di salutare un po’ tutti.
Abdoul ha programmato una gita con il “charret”, ci prepariamo quindi a partire.
Non so né la meta, né la durata del viaggio, così mi incammino dietro Emilia e Abdoul in visita al villaggio. Camminando passiamo davanti a diverse case e mi accorgo che molte sono costruite di fango secco e hanno un tetto di paglia. La struttura è semplice : una o due stanze poco luminose e una tettoia di paglia all’esterno per oziare sui tappeti e stare…
Alcune case più ricche sono invece costruite in muratura e magari anche colorate; il cortile è chiuso e contiene diverse costruzioni, ognuna di una o due stanze. È il caso della famiglia di Abdoul, più benestante di altre perché il padre è allevatore. Comunque, al di là di queste differenze, da ogni casa provengono inviti a fermarsi, saluti e offerte di thè; Abdoul conosce tutti e il rito dei saluti è importantissimo: Mbadà, Maudum, Indillae…
E così via, in uno scambio eterno di suoni e strette di mano.
La prima sosta è alla Moschea in costruzione. Un gruppo di uomini è al lavoro ma ciascun uomo del villaggio può dare il suo contributo quando vuole. Mentre Abdoul filma i lavori, o finge di mettere mano alla pala e intervista amici e presenti, io sono al solito assaltata da un gruppo di bambini che mi chiedono di scattare loro delle foto.
È sorprendente come tutti amino essere fotografati, non c’è nessun timore dell’apparecchio fotografico e soprattutto i bambini lottano per arrivare fin dentro l’obiettivo. Uno di loro in particolare mi colpisce per l’abbigliamento : è vestito di bianco con una specie di saio e ha in testa un cappellino come quelli da neonato, anch’esso bianco ; per finire ha un bastone. Scopro più tardi che sono vestiti in questo modo (di bianco o di nero) i circoncisi, nel periodo della convalescenza dopo l’operazione.
Per quel che riguarda la Moschea, i lavori sembrano a buon punto, certo è strano che in un villaggio non tanto grande come Dimat si costruisca una seconda Moschea e non si pensi piuttosto a una scuola o a un ospedale. Al solito, il potere della religione!
Quando ormai sembra improbabile che riusciremo ad allontanarci dalla Moschea e dal corteo di bambini che ci seguono, sopraggiunge il “charret”, guidato da un ragazzo che tiene le redini del cavallo in compagnia di Abu, cugino di Abdoul. Questo mezzo di trasporto è costruito con un paio di assi, sostenute da due ruote di gomma (appartenute probabilmente a un camion) e trainato da un cavallo o da un mulo. Chi lo possiede ha una fonte di guadagno che è data dal poter trasportare sacchi di riso o di miglio, animali o persone come noi, due bianche in visita nella regione di Fouta!
Si procede al trotto attraverso un sentiero non molto distinguibile e con la dovuta lentezza ci lasciamo dietro le case del villaggio per arrivare al fiume da attraversare. L’impresa è lenta: bisogna staccare il cavallo, caricare il carro sulla chiatta quadrata fatta di fusti vuoti legati assieme da tavole di legno e salire anche noi; dopodichè si comincia a tirare la corda, legata alla riva opposta per muovere lentamente la chiatta e noi con essa.
Il cavallo ci segue a nuoto, naturalmente.
All’approdo, le operazioni inverse per rimontare il carro e, ancora una volta, partire.
Da lontano si scorgono le case abbandonate del vecchio villaggio di Dimat, che poi si è trasferito interamente senza validi motivi. Tra le case, la Moschea che, naturalmente, non manca, e in disparte una casa bianca, solitaria, appartenente al più grande Marabu (sacerdote musulmano) della zona.
Presto ci lasciamo alle spalle anche la vista del vecchio villaggio per non avere intorno altro che terra secca e rari arbusti dalle poche foglie e dalle tante spine. Il sole è forte, questo è il vero deserto di Fouta.
Il tempo scorre lentamente, ma in realtà i chilometri da percorrere non sono tanti e così ci troviamo ben presto alla meta. Si tratta di un piccolo villaggio sulle rive del fiume Sengal, ai confini con la Mauritania, i cui abitanti sono rifugiati senegalesi che sono dovuti scappare dalla Mauritania, cioè dalla riva opposta del fiume a questa, a causa della guerra.
Le case qui sono tutte di fango, e i bambini sono tantissimi rispetto ai pochi adulti. Il fiume si snoda in tutta la sua grandezza e costituisce un confine naturale che purtroppo divide due zone dalla vegetazione molto diversa. Da questa parte il deserto, dall’altra il miraggio del verde!
Scesi dal “charret”, riusciamo a resistere poco al sole e così il ragazzo che ci ha condotti fino al villaggio ci invita a entrare in una delle case di fango che si rivela essere la sua. Dopo il sole accecante di mezzogiorno, è faticoso abituare gli occhi all’oscurità sella stanza vuota, ma ben presto riesco a distinguere un materasso su cui accomodarmi. Di fronte a me trovano posto Abdoul e il ragazzo (padrone di casa) che ha condotto il carretto, a fianco ho invece Emilia.
La stanchezza prende il sopravvento e, senza accorgermene, cado addormentata, sdraiata alla meglio sul materasso di fortuna. E’ strano assecondare il torpore dovuto al clima e all’impossibilità di fare qualsiasi cosa: nelle case il vuoto, fuori il deserto !
Al risveglio, l’odore consueto del thè che il ragazzo è intento a versare da un bicchiere all’altro e a fianco a me un bambino che mi porge l’album di fotografie più o meno ingiallite e maneggiate.
Ogni senegalese ha il proprio album di foto, nel quale mostrare ad amici o anche a semplici conoscenti ogni componente della sua famiglia, oltre ad amici ripresi durante feste o raduni. I ritratti delle donne non sono mai in pose casuali: si possono osservare i colorati cappelli, ricavati da un tessuto arrotolato sulla testa da abili mani e fermato con semplici spilli, e i visi sono sempre curati e truccati; il vestito è spesso dello stesso colore del cappello e ci possono essere pizzi a rifinire un semplice saio che ricopre la gonna. Tra le foto a colori, mi colpiscono alcuni ritratti in bianco e nero ormai diventati gialli con gli anni.
Passo l’album a Emilia e comincio a conversare in francese con il bambino a fianco a me, di nome Mamadu. Mi racconta di aver vissuto in Mauritania e di essere dovuto scappare con i genitori a causa della guerra, come gli altri rifugiati di questo villaggio. Studia a Daganà, un paese non troppo vicino, ed è qui per le vacanze; ha tredici anni e mi mostra il suo quaderno del trascorso anno scolastico in cui scorro le varie materie e gli argomenti trattati: geografia, storia, matematica, educazione sanitaria. Suo zio, mi dice, è insegnante in Mauritania. E poi mi chiede e mi racconta con la curiosità e l’interesse di un adulto.
Siamo interrotti dall’arrivo del piatto comune: le donne hanno cucinato per noi miglio con pesce. Mi lavo le mani e copio i gesti di chi mi circonda, che rapidamente permettono con la mano destra di fare piccoli bocconi di miglio impastato. Mamadu, che mi è vicino, mi avvicina i pezzi di pesce con la generosità propria di questo popolo per cui l’ospitalità è sacra.
Non è necessario finire il piatto per sentirsi sazi, con il caldo non si ha mai troppo appetito. Nonostante questo, dopo un altro bicchiere di thè, servito nel tempo necessario a prepararlo, arriva la carne cucinata con biscotti secchi. Alla fine del pasto beviamo ancora thè e poi ci alziamo per uscire a salutare tutti i bambini e le poche famiglie che abitano questo villaggio.
Naturalmente, alla vista della macchina fotografica, i bambini ci circondano chiedendo di essere fotografati. Uno in particolare, nerissimo, piccolo e intraprendente si mette sempre davanti al gruppo e sorride mostrando tutti i denti. Mamadu invece resta in disparte e sono io a chiedergli una foto con i suoi genitori. Una donna mi indica a gesti il suo piccolo, seduto su una stuoia, e mi fa capire che vorrebbe una sua foto: tutti sperano nella possibilità di vedersi ritratti.
Mentre aspettiamo che il carretto venga preparato, Abdoul ci porta in visita ai tre Marabou del villaggio. Entriamo in un’altra casa e troviamo tre anziani intenti a trascrivere il Corano su tavole di legno chiuse in cima a semicerchio. Anch’essi vogliono essere fotografati e prima di salutarci recitano qualche frase che corrisponde probabilmente a una benedizione.
Tutti sono fedeli a questi anziani sacerdoti che ancora regolano la vita del villaggio: sono loro a portare avanti i riti musulmani, le credenze supersiziose, la cisconcisione per gli uomini, l’infibulazione per le donne e tutto ciò che arresta nei villaggi lo sviluppo e l’emancipazione da regole spesso brutali.
Tipico oggetto che ogni senegalese porta con sé per proteggersi e per darsi forza è il “Ghiri Ghiri”, una sacchetta in cuoio che custodisce cotone intriso di pozioni preparate dal proprio Marabou. Spesso si tratta di una protezione contro le ferite, o comunque di un portafortuna in generale.
Con il saluto a questi tre sacerdoti, la nostra visita è terminata, il carretto è pronto e restano solo i saluti ai tanti bambini.
Tra loro, Mamadu che mi guarda e piange… (Settembre 1996)

Bambini di un altro villaggio al confine con la Mauritania
Abdoul che simbolicamente porge aiuto per le opere di costruzione della Moschea a Dimat

In un’altra di quelle giornate che affiorano pensando ai giganti Gargantua e Pantagruele, ricordo l’annuncio di Abdoul: “Oggi si va a fare un pic nic. Festeggiamo il mio rientro e la vostra presenza, vi portiamo a visitare la natura che circonda il villaggio”. È così che tutti, ma proprio tutti, il villaggio rimane quasi vuoto, se non per qualche anziano, ci mettiamo in cammino, un corteo scomposto, tra noi un capretto che ci segue, trattenuto da una lunga corda. Non è troppo distante dall’agnello che allevammo una primavera di tanto tempo prima, ero bambina e lo adoravo quell’agnello, prima di ritrovarlo sul piatto di un pranzo pasquale che non riuscii a consumare. Ora sono un’adulta, o così la mia età stabilisce, per questa cultura sono una ragazza strana, non ho un uomo accanto, che sia un padre o un fidanzato, sono sola in mezzo a una moltitudine di parenti che potrebbero essere i miei se la mia anima si fosse incarnata in questo continente. E il capretto potrebbe essere l’agnello risuscitato dalla mia memoria, vivo in mezzo a noi e, nell’arco di tempo di una passeggiata, il nostro pasto condiviso, immolato alla realizzazione di un banchetto pantagruelico in onore del figlio ritornato, delle sue donne, amiche, ospiti da accogliere con tutta la generosità di chi pensa con il cuore. Passeggiamo per ore a conoscere ogni arbusto attorno al luogo del banchetto, a toccare con lo sguardo terra, rami, foglie, cielo, mentre le donne si occupano del miglio e gli uomini dell’arrosto. E poi siamo seduti, gruppo in festa, in cerchio attorno alla carne arrostita, al companatico, e ce n’è per tutti, nessuno escluso, nulla avanzerà, tutto sarà condiviso, gli ultimi bocconi di carne, la musica, i canti, le voci nuove e ritrovate, i legami spezzati e ricuciti a formare un tessuto del quale divento parte e in realtà già lo ero, per il semplice fatto di essere umana, ospite anche io del banchetto pantagruelico che la natura ci offre.

Pic Nic
Madre di Abdoul
Padre di Abdoul