Lingotto 1: Soglia

Lingotto 1: Soglia

Maggio 14, 2019 2 Di Marta Cerù

Di ritorno dal Salone Internazionale del Libro di Torino, questa è la prima puntata della cronaca di un viaggio tra le parole catturate al Lingotto e fuori. Non posso raccontare il Salone in un solo articolo, comincio quindi dalla Soglia.

Torino era per me ed è ancora oggi la città degli amici, quelli di penna, di carta, di famiglia o di elezione. E quest’anno, dopo vent’anni di assenza, ho rimesso piede al Lingotto, partecipando attivamente al Salone Internazionale del Libro. Dopo due giorni trascorsi tra gli stand, ascoltando e seguendo il filo delle parole, mi sono resa conto che ne avevo acchiappate così tante che mi ci vorrà un anno (o forse una vita) per restituirle tutte. Soprattutto perché dietro ogni parola che catturo c’è un volto, una piccola storia, una perlina, un quadratino di una coperta fatta per proteggere, avvolgere. Un po’ come le coperte dei ricordi, quelle che mia madre crea da anni per regalarle a noi figli, ai parenti cari, agli amici imprescindibili. Sono fatte di quadrati ritagliati da vecchi cappotti o vestiti dismessi di lana buona, che lei cuce insieme, attaccandoli con la colla di un bordo all’uncinetto. Ogni quadrato è per me una parola, un tassello di un mosaico, o un nodo di una Rete, come quella degli amici scrittori, pescati da Demetrio Brandi e dal suo Premio Racconti nella Rete. Grazie al racconto “Quanto basta per essere felici”, pubblicato nell’antologia del 2018 per Castelvecchi, esposta in fiera e presentata nella sala Superfestival, mi sono ritrovata ancora una volta nella Rete di Demetrio, quella che pesca scriventi di racconti e li fa approdare a Lucca, in occasione del Festival Luccatori. Il mio consiglio, per chi ha un racconto nel cassetto è di non tenerlo nascosto, ma di iscriverlo al concorso. C’è tempo fino al 31 maggio 2019, per diventare parte della nuova antologia 2019, con la copertina disegnata da Bruno Cannucciari.

Al Lingotto ci andavo da ragazzina, a visitare il salone della mia casa del cuore. Andavo con lo zio Pio, che ogni anno partiva per un viaggio alla scoperta delle novità editoriali italiane. Se anche non ci andavo davvero, c’ero comunque stata, perché lo zio riportava a casa la fiera del libro, ce ne rendeva parte, invitandoci a frequentare la libreria improvvisata nel suo salotto, dove esponeva il bottino conquistato esplorando in modo sistematico e organizzato tutti gli stand del Salone del Libro di Torino.

È stato così che ho familiarizzato con un luogo dell’immaginario, anche se in realtà Torino la frequentavo fin da piccolissima, con mamma e papà che mi portavano, e le occasioni erano sempre memorabili, a trovare i loro amici di gioventù e di vacanze, tra il Piemonte di Torino e Occhieppo e la Liguria di Deiva. I ricordi si perdono nell’infanzia dei sogni, quella di una scimmia di peluche, incontrata a casa Castaudi e della quale sono rimasta innamorata a vita. Forse non tanto della scimmia, quanto della casa di Lelia e Carlo, o Carlo e Lelia, dove andavo a chiedere lumi, o a trovarli in me stessa. La loro Torino è rimasta la mia Torino, quella del Salone, del Museo Egizio, della Mole, della Sindone, della Fiat, del Politecnico e dei Gianduiotti. Ma anche quella di una famiglia allargata in cui tutti studiavano, insegnavano, ricercavano, viaggiavano, erano scienziati e/o letterati, spesso Fisici o Matematici, ognuno un po’ allievo e un po’ maestro, di scienza e di vita. Soprattutto a Torino tutti leggevano e si scambiavano libri, in un contesto nel quale non c’era distinzione tra la scienza e la letteratura, o tra la scienza e le arti, tante facce di uno stesso dado. E come fai a scegliere a diciotto anni se studiare Fisica o Ingegneria, oppure osare iscriverti a Lettere senza aver fatto il Classico? Io sono andata a trovare i Castaudi, a Torino appunto, e dopo non ho potuto fare altro che seguire il richiamo della Fisica!

A Torino si parlava una lingua che profumava di Parigi, così vicina da toccarla con un dito in Piazza Castello o camminando per il quadrilatero e arrivando a percorrere Corso Francia. E a Torino c’erano i parenti Bertone, il ramo della famiglia piemontese, dal quale proveniva mia nonna Adalgisa, detta Gisella, la mamma di mia mamma. La immagino giovane ragazza, tra le due guerre, rendersi autonoma lavorando come segretaria, e poi nei weekend la vedo andare a sciare con gli amici, figlia di un’Italia vicina all’Europa.

La soglia della mia Torino si trova in Via Bergera, situata all’altezza di Corso Peschiera, angolo Corso Monte Cucco. È il luogo di un condominio comunità: ci vivevano i Castaudi, i Carluccio, gli Edo, ma soprattutto donna Tinna Olivetti, la nonna che avrei voluto avere da bambina e che mi ha regalato la possibilità di stringere un’amicizia profonda con suo nipote Maurizio, portandolo in vacanza al Casino, una casa assai amata, per il profumo di vacanza che spesso ritorna nei miei sogni. Avevamo entrambi circa dieci anni e per me quello è stato l’inizio di un’amicizia tramandata di generazione in generazione. I nostri genitori erano amici, così i nostri nonni, da quel momento lo eravamo diventati anche noi.

A Torino ho continuato ad andare da ragazza, quando mi trovavo a un bivio e avevo bisogno di fermarmi a pensare nel salotto tra i saloni, la cucina di Lelia e Carlo. Seduta al tavolo di legno potevo assaporare la dolcezza dei discorsi di Lelia, una fisica abituata a misurare con il calibro le sue belle parole, e dove cercare in me le risposte alle domande di Carlo, professore di fisica anche lui, che ti interroga con autorevolezza bendisposta, ma sopratutto con la curiosità di un tuo pari, aiutandoti a capire dove stai andando, se per caso hai perso la rotta. […Continua…]