Erpice

Erpice

Aprile 12, 2020 0 Di Marta Cerù

Ci sono giorni in cui tutto si ferma. Anche la logica dei pensieri e dell’agire. Come oggi, per esempio, prima di un’alba in cui ho aperto gli occhi e mi sono trovata davanti la parola erpice. Ce l’ho in testa, riferita ai pensieri che si intrufolano e crescono, occupano spazio, tolgono ossigeno e si fanno ossessivi, al punto di soffocare altri pensieri, ancora prima che possano mettere radici per sopravvivere. Penso che per me certi pensieri da provare a eradicare con un erpice hanno a che fare con l’orrore, la violenza, la morte provocata, l’assassinio, oppure riguardano vite interrotte, o anche storie interrotte, quelle che non ho potuto ascoltare fino alla fine, che rimangono sospese con le miriadi di possibilità e combinazioni di possibilità che si espandono a macchia d’olio allargandosi a inondare la calma marea della mente. Sono erbacce questi pensieri, ma non sempre è utile estirparli, non sempre è possibile, non sempre esiste l’erpice adatto, o meglio forse quel retino capace di estrarli dalla sabbia, come si faceva un tempo con le telline in riva al mare, per farne altro, cucinarli al sugo magari, o in bianco al gusto di piccante.

Forse la scrittura è lo strumento giusto per fare erba secca di tanti pensieri affastellati? Non ne sono del tutto sicura, non saprei, anche se un po’ lo credo, altrimenti non sarei qui a scrivere, nella penombra rosseggiante, un attimo prima di un’alba che si annuncia esplosiva, tersa, abbagliante, tale da estirpare essa stessa qualsiasi pensiero, anche quelli utili forse, che dovremmo mantenere stretti e coltivare in penombra. E invece a volte purtroppo li lasciamo seccare dal sole accecante e addio, sono bruciati e polverizzati per sempre.

Cosa mi assilla stamattina? Chiedo inconsapevole alla penna, sperando che una sua voce possa rispondermi, in quello sdoppiamento che a volte mi capita emergendo da un sogno, con questa parola in mano: erpice…erpice…erpice per rompere le zolle, erpice per rivoltare il manto erboso, erpice per eradicare le erbacce, erpice a trazione, erpice rotante… Sarà che ieri sera ho catturato qualche immagine del vecchio film di Ermanno Olmi, “L’albero degli zoccoli”, riproposto da Rai Tre per ricordare uno degli interpreti, Giovanni Fumagalli, nel film il ragazzino figlio del padrone ripreso a suonare il pianoforte, ad oggi morto tra i bergamaschi stroncati dal Covid 19. Alle immagini che ricordavo vagamente di aver visto da bambina, si sono sovrapposte quelle di oggi, scene strazianti della campagna più dura, più povera, più ingiusta, dove le vite stesse delle persone si scontravano con le zolle, con l’ingiustizia di un sistema in mano ai fattori, alla mezzadria, al potere di pochissimi su una moltitudine di vite, la cui unica aspirazione era forse mandare uno dei figli, almeno uno, a scuola.

Distolgo il pensiero da quelle scene brulle e in un attimo si dirige verso gli uomini che ho amato, che mi hanno amata, con i quali è finita da un pezzo o non è mai finita del tutto, perché nulla finisce se non con la morte, mi dico. Penso al fatto che basta un sogno a volte a riportare a galla emozioni ormai dimenticate. E ricordarsi di qualcuno che si è amato e poi dimenticato. Non è anche quella una specie di morte, di quella parte di noi che un tempo provava quel sentimento cosi vivo? 

Non è un caso avere questi pensieri mi dico, proprio stamattina dopo un sogno nel quale un amore che non mi ha mai corrisposto mi scriveva. E dopo essermi addormentata con un libro accanto e con le parole di uno scrittore che insegue proprio quei pensieri lì, quelli che qualcun altro tenderebbe a estirpare, almeno questa è la sensazione che mi accompagna in questi giorni, leggendo “Gli innamoramenti” (Einaudi), dello scrittore madrileno Javier Marías: “Questo è l’errore (…) di credere che il presente sia per sempre, che quel che c’è in ogni istante sia definitivo, quando tutti dovremmo sapere che niente lo è, fino a che ci resta un po’ di tempo. Ci trasciniamo dietro abbastanza capovolgimenti e giri, non soltanto della sorte ma del nostro animo. Impariamo a poco a poco che quanto ci era parso gravissimo un bel giorno ci sembrerà neutro, soltanto un fatto, soltanto un dato. Che la persona senza la quale non potevamo stare, senza la quale non riuscivamo a dormire, senza la quale non potevamo concepire la nostra esistenza, dalle cui parole e dalla cui presenza dipendevamo giorno dopo giorno, verrà un momento in cui non ci occuperà un solo pensiero, e anche se ciò avverrà, di tanto in tanto, sarà per uno stringersi nelle spalle (…)”.

La donna protagonista lavora per una casa editrice e così descrive gli scrittori: “Sono gente strana, la maggior parte. Si alzano come sono andati a dormire, pensando alle loro cose immaginarie che tuttavia li tengono occupati per tanto tempo. Quelli che vivono della letteratura e dei suoi addentellati e perciò sono privi di un impiego (…) non si muovono di casa e la sola cosa che devono fare è tornare al computer o alla macchina da scrivere – c’è ancora qualche suonato che la usa e al quale si devono scannerizzare i testi, quando li consegna – con incomprensibile autodisciplina: bisogna essere un po’ anormale per mettersi a lavorare a qualcosa senza che nessuno lo abbia ordinato”.

Questo paragrafo mi ha strappato una risata, nel mezzo di un racconto venato di ben altra tristezza. L’autore l’ho incontrato per la prima volta a Torino, quasi un anno fa oramai, durante il Salone del Libro 2019. Non lui, in realtà, bensì la sua scrittura ho incontrato, l’ho conosciuta grazie alla cara amica Lelia, fisica, insegnante e da sempre fonte di consigli letterari. Ma solo dopo un anno mi trovo finalmente a leggere un suo libro, il cui titolo mi spaventava. E non a torto, visto che lo scrittore si è addentrato nel turbinio dei sentimenti, quelli verbalizzati e quelli solo sentiti, vissuti ma espressi in silenzio, solo pensati, immaginati, non davvero interpretati, esternati. Il racconto si dipana nella mente di una donna che osserva la vita di una coppia affiatata, ‘perfetta’ ai suoi occhi, una coppia che scompare quando lui viene ucciso brutalmente e senza motivo. E da questa scoperta la donna si addentra nel sentimento della perdita, dell’amore, delle possibilità per chi resta, di quelle per chi non è più ma un tempo era, viveva, pensava, dialogava con il suo migliore amico, con la sua moglie e compagna.

In un certo senso il romanzo è un continuo flusso di coscienza. Ma non solo questo. C’è una storia, che però si rivela solo dall’interno di un punto di vista, che esprime quello di altri ma in un modo che la lettura si fa intima, sempre più intima, al punto da addentrarsi in parti dell’inconscio anche mio, di me lettrice, che non ho nulla a che fare con quella donna, quel suo vissuto. Non è dopotutto quello che capita sempre leggendo? Quell’immersione totale tra le parole che ci fa dimenticare chi siamo, o forse ci ricorda chi siamo, ci aiuta a conoscerci meglio.

Nella mia ricerca volta a essere chi sono e forse chi sarò, ho proceduto e continuo a procedere per emulazione, ho conosciuto me stessa attraverso gli altri, attraverso i libri, attraverso le relazioni. Quelle con gli uomini che ho amato, più forse che con le donne, le amiche, le maestre. Le donne le ho prese sì a modello, ma non sempre nel modo giusto, non sempre provare a imitarle mi ha portata dove avrei voluto. Quel mettermi a confronto è arrivato a volte a scimmiottare, spesso mi ha portata a sminuirmi, invece che diventare l’imitazione che opererebbe un artista di fronte al modello di chi lo ha preceduto, per poi arrivare alla sua opera originale.

Quali sono le erbacce che devo estirpare, in questi giorni in cui mi trovo più spesso di quanto vorrei, a tu per tu con la mia mente e non altro? Me lo chiedo e sento già la paura di rimanere sfibrata, delusa, svuotata, nel riconoscerle come troppe, tante, tutto il tappeto erboso dei miei pensieri costanti e assillanti, miei e non miei. Che le erbacce siano illusioni? Come quel velo che ci separa dalla verità? Sono ferma da tempo nella sensazione che per me quel velo sia diventato una muraglia, un confine di un fortino inespugnabile, io fuori, la me che vorrei essere e che ancora non conosco all’interno. Come se tutto quello che sono mi fosse inaccessibile, incomprensibile, avvolto, ricoperto come è di erbacce, diventate una foresta, che non è di altro fatta se non di quei pensieri di me, costruiti per imitazione.

Ho l’erpice in mano… Che fare? Estirpare fa male. E se sotto non trovassi nulla? Se sotto o a fianco delle tante erbacce non ci fosse più nulla di vivo? Nulla che non sia ormai imperfetto, nel senso di passato, participio passato o condizionale declinato nel passato, schiuma volatile nell’infrangersi dell’onda sulla riva. È questo il senso della cura? Del prendersi cura di vivere, anche quando non se ne coglie il senso? Raccogliere un senso, prima che le erbacce lo perdano, lo confondano, lo soffochino, oppure accorgersi che esistono, estirparle, con l’erpice se necessario, o anche a mano, per non rischiare di distruggere il seme appena germogliato, quello che diverrà raccolto, che ci sarà, certo che ci sarà, dovrà pure esserci…

Vedo un lupo agonizzante. Un animale morto che mi accingo a seppellire in una nicchia sotto una parete di pietra. Lo ricopro di erba secca, di zolle, ma il muso è ancora scoperto quando mi accorgo che respira. È vivo, davvero sei vivo? Lo estraggo e so di averlo salvato, di aver agito in tempo, di avergli dato un futuro. Lo accompagno verso un portale dal quale si allontana in compagnia di una donna, che non sono io, ma il non esserlo e il ritrovarmi sola non mi crea sofferenza o tristezza, tutt’altro, sono felice, di guardare i due allontanarsi nella loro completezza. Lo ho reso possibile dopotutto, anche solo per averlo immaginato, una possibilità lasciata germogliare estirpando quel che c’era di superfluo.