Rossetto
Ci sono periodi di secca, nei quali le parole si ritirano e l’inchiostro scarseggia. Mi sveglio scrivendo frasi che rimangono inevase, paragrafi irrisolti rinchiusi nella mia mente. Le loro diramazioni sono infinite, riguardano pensieri non lineari e storie avanti e indietro nel tempo, capaci di riscrivere il passato ogni volta che lo desidero, anche solo per cambiare un banale dettaglio, le scarpe che indossavo, o qualcosa di più significativo, un bacio dato troppo impulsivamente, le chiavi del cuore prestate al presunto amico e a fatica riavute indietro.
Stanotte scrivevo di Parigi, ne leggevo e scrivevo a un tempo, grazie alla biografia di Lee Miller, narrata magistralmente da Serena Dandini nel suo “La vasca del Fuhrer” (Giulio Einaudi Editore). Avevo incontrato Serena Dandini a PiùLibriPiùLiberi2021, dove dialogava con Chiara Valerio del suo libro.
Non avevo ancora avuto la fortuna di leggerlo, ma stanotte scorreva nella mia mente la scena della fotografa corrispondente di guerra per la rivista Vogue, che entra nel campo di Dachau e regala a uno scheletro di donna il rossetto contenuto nel suo zaino, reperto di una femminilità che resiste, riportando colore nei luoghi scolorati dalla morte. Un rossetto che Lee, malata di cancro e quasi morente, si mette senza l’aiuto di uno specchio. Quel rossetto che per errore arriva a essere distribuito dalla croce rossa alle prigioniere del campo di concentramento, e l’errore si rivela vitale, tale da aiutare le sopravvissute molto più di una porzione di cibo che avrebbe potuto uccidere i loro corpi disabituati a nutrirsi.
Il tenente colonnello britannico Mervin W. Gonin, scrive nel suo diario: “È stato poco dopo l’arrivo della Croce Rossa britannica, anche se potrebbe non avere alcun collegamento, che è arrivata una quantità molto grande di rossetto. Non era affatto quello che noi uomini volevamo, stavamo urlando per centinaia e migliaia di altre cose e non so chi ha chiesto il rossetto. Vorrei tanto poter scoprire chi l’ha fatto, è stata l’azione del genio, pura genialità. Credo che niente abbia fatto di più per questi internati del rossetto. Le donne giacevano a letto senza lenzuola e senza camicia da notte ma con labbra rosso scarlatto, le vedevi girovagare con nient’altro che una coperta sulle spalle, ma con labbra rosso scarlatto. Ho visto una donna morta sul tavolo dell’autopsia e stringeva in mano un pezzo di rossetto. Finalmente qualcuno aveva fatto qualcosa per renderli di nuovo individui, erano qualcuno, non più solo il numero tatuato sul loro braccio. Finalmente potevano interessarsi al loro aspetto. Quel rossetto ha iniziato a restituire loro la loro umanità”.
Essere donna negli anni venti del Novecento, essere Li Li, è il senso di questo libro in cui la Dandini racconta la vita di Elisabeth Miller, e lo fa ripercorrendola lei stessa, la sua voce narrante esterna che si specchia nella storia di una donna straordinaria nello spazio da lei percorso in un tempo ormai diverso. Serena autrice è a Parigi, seduta in un caffè incontra un giovane studioso di quegli anni che le indica la casa studio di Lee. Ed è lì che l’autrice fa rivivere su carta l’incontro fortuito tra Lee e Man Ray, l’audacia di lei e l’inizio di un amore fisico e artistico, umano e spirituale, un sodalizio che restituirà al mondo immagini di una bellezza indelebile, tanto quanto surreale: una schiena nuda diventata la sagoma di un violino, un volto dove fisse scorrono lacrime sferiche che sembrano di vetro.
La storia di Elisabeth, di Li Li, di Lee Miller, di Lady Penrose, si svolge come lungo un sentiero che si dirama nel bosco, dove la svolta imprevedibile porta a scoprire una delle tante vite di questa donna capace di catturare al volo le sue molteplici evoluzioni, grazie a una inquietudine perenne, una spinta volta a quell’altrove dove restare libera. Una delle prime deviazioni è quella della giovane Elisabeth che, per un caso e per evitare di essere investita da una limousine, cade nelle braccia di Condé Nast, “uno degli uomini più influenti dell’editoria americana” nella New York degli anni venti. “(…) quella mattina il magnate si rende conto all’istante che la ragazza che gli è caduta tra le braccia non è soltanto bellissima, ma incarna la quintessenza dell’eleganza moderna. (…) Pochi mesi dopo quell’incontro fortuito, il volto di Elisabeth Miller appare sulla copertina di “Vogue America”, disegnato da Georges Lepape, l’illustratore più acclamato del momento. L’immagine è dannatamente chic e ci mostra il primo piano di una tipica “maschietta” dell’età del jazz”.
Lee viene consacrata modella dagli scatti della star dei fotografi di moda, Edward Steichen. “È una lady sofisticata fasciata in un abito sottoveste in velluto di seta color crema guarnito da una sfarzosa volpe bianca; ma subito dopo è una “maschietta” impertinente che indossa un tailleur pantalone firmato Chanel sulla tolda di uno yacht miliardario; poi ancora una affascinante uptown girl avvolta in una cappa in satin bianco virginale tempestata di swarovsky”.
Ma la modella oggetto di sguardi preferisce assumere lo sguardo dietro una fedele Rolleiflex e, nella sua ansia di libertà, impara le arti della fotografia e abbandona New York diretta a conoscere Man Ray nella Parigi di inizio anni trenta. È ancora il caso che offre ai due una diramazione che porterà i due artisti ad affinare l’arte di dipingere la luce. Durante il lavoro in camera oscura, un incidente con un presunto topo spinge Lee ad accendere la luce. “È soltanto un attimo, ma è sicura di aver rovinato il prezioso materiale di Ray. Invece ha appena scoperto un nuovo procedimento di sviluppo che dona alle immagini una suggestione pittorica. Grazie all’esposizione accidentale, il nero di fondo sfuma nel grigio lasciando un profilo più marcato intorno ai soggetti , i quali acquistano un effetto tridimensionale che richiama gli antichi bassorilievi”.
Ogni amore ha un punto di svolta. E il legame tra Man e Lee si spezza quando lei decide di tornare a New York per affrancarsi dal maestro e seguire la sua missione di fotografa. Poi c’è l’incontro con il marito egiziano, l’annullamento in Africa, la rinascita nel viaggio, il ritorno a Parigi e l’incontro con Penrose. Come si può raccontare una vita così densa, che contiene non una ma tante donne, se non scegliendo minuscoli dettagli, quelli più significativi? Dandini riesce a ricostruire il puzzle dagli infiniti pezzi di questa donna tagliata nell’arte di Man Ray, e la restituisce viva e intera, persino quando la descrive muoversi come reporter di guerra, il suo sguardo sull’orrore, mai neutro, sempre capace di una restituzione estetica e surrealista, persino all’interno di Dachau.
La foto nella vasca del Fuhrer è il suggello di un periodo che ha distrutto quel mondo nel quale Elisabeth ha potuto esplorare le diramazioni della sua esistenza, viverle tutte, fino in fondo, tornare indietro e ricominciare. Quella foto si perde per anni in una soffitta come le tante vite di Lee, ritrovate dal figlio dopo la morte della madre. È una foto costruita ad arte, nella casa al numero 16 di Prinzregentenplatz, “il nido d’amore che il capo supremo del Terzo Reich condivideva con l’amante Eva Braun, una donna scialba e all’apparenza priva di personalità che è rimasta un mistero per gli storici appassionati della vita sessuale del Fuhrer. Lee entra nell’appartamento quasi in trance, è subito colpita dalla mediocrità dell’ambiente. (…) È inutile cercare spiegazioni profonde. Anni dopo, Hanna Arendt ci aiuterà a far luce sulla “banalità del male”.
La foto che titola il romanzo biografia è frutto di “un guizzo geniale” di Lee, scrive la Dandini. “Nei lager ha visitato altre sale da bagno, architettate dalle menti più raffinate del regime per eliminare una grande quantità di prigionieri nel minor tempo possibile. (…) Così la descrive Lee: Le vittime si toglievano i vestiti e procedevano ignare, dopo aver lasciato a terra le divise perché fossero lavate. Aprivano i rubinetti e si uccidevano da sé, preservando così le SS dallo stigma di assassini”.
Reduce dall’aver testimoniato con le sue foto quello che resta degli esseri ancora vivi nei campi di sterminio, Lee istruisce il suo collega di lavoro Dave Sherman che “scatta per lei un intero rullino, unico testimone di questa insolita esibizione. Al centro dell’inquadratura, Lee mostra all’obiettivo il viso misterioso di una Sfinge. È un’azione di guerriglia quella che mette in atto nel luogo più privato dell’uomo più cattivo del mondo”.
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Il resto è la storia di una donna che svetta all’apice di ruoli diversi, fino a precipitare verso l’inesorabile baratro che il tempo riserva anche alle più grandi. Ma, grazie alla penna di Serena Dandini, alla sua sensibilità ironica e profonda, la narrazione rende omaggio a Lee Miller, persino negli anni che preludono alla morte di una grande artista dell’inquietudine. Ed è grazie al potere di un rossetto, che persino la Lee morente recupera tutta la sua bellezza, nell’attimo più fragile e misterioso della vita che si appresta a lasciare.