Affastellare
La parola affastellare è una delle ultime che ricevo in dono dalla manifestazione del Premio Pieve 2024. Mi arriva da Enzo Mirone, regista teatrale, musicista e operatore sociale, che conosco durante il pranzo che prelude al pomeriggio dei finalisti e all’annuncio del Premio.
E in effetti le parole mi si affastellano in mente, ognuna una storia delle ultime ascoltate tra sabato e domenica, da quando sono arrivata a Pieve Santo Stefano, per il quarantesimo anniversario dell’Archivio dei Diari.
Tombola è la prima, penso tra me e me, mi arriva dal manifesto di quest’anno: un’immagine dei tradizionali bottoni di legno della tombola, con i numeri della terna 44-84-24. Rappresentano la scansione cronologica che parte dal bombardamento di Pieve Santo Stefano nel 1944, riscattato dalla fondazione dell’Archivio dei Diari quarant’anni dopo da parte di Saverio Tutino nel 1984, per arrivare a quest’anno in cui le celebrazioni del quarantesimo anniversario accentuano il clima di festa di una sempre più vasta comunità, che continua a riunirsi attorno alle storie di ognuno. Banca della memoria fu la prima definizione data da Tutino all’Archivio che aveva in mente, trasformata poi da lui stesso in vivaio della memoria, poi in giacimento, fino ad arrivare oggi a incorporare l’immagine di un mosaico della memoria.
Mi piace l’idea del mosaico, anche io un piccolissimo tassello depositato nel 2021, come quello che quest’anno ha portato qui la mia amica Elena De Luca. Il suo diario, scritto a matita in itinere all’età di 23 anni, riguarda un viaggio in Madagascar da giovane biologa, allora spinta dalla curiosità di esplorare da sola un mondo così lontano da quello romano borghese dal quale proveniva. La sua storia, come altre quest’anno, ha ricevuto una menzione d’onore.
Ogni anno infatti, oltre ai dieci finalisti selezionati dalla giuria nazionale, altrettante storie ricevono attenzione e ascolto, perché scelte dalle lettrici o dai lettori volontari, come meritevoli di una menzione d’onore. E così il tassello della vita in viaggio di Elena si è incastonato nel mosaico dove il filo rosso della memoria attraversava storie di lavoro minorile, di emigrazione, di malattia, di passione per la vita, di forza dei legami familiari attorno a una casa dal nome “Casaccia”, di ricerca della verità attorno al farmaco talidomide, un tranquillante per gestanti, che ha causato migliaia di nascite di bambini focomelici e decine di migliaia di morti premature. È tutto un affastellarsi di storie dentro le storie, giunte a Pieve Santo Stefano lo scorso anno, lette da coloro che volontariamente si prestano a farlo, e distillate per essere conservate o per partecipare alla selezione finale, o ancora per ricevere una menzione che le faccia arrivare a lettori e lettrici, perché degne di essere lette e ascoltate, a prescindere da pubblicazione o Premio. La guida che illustra il quadro di questo mosaico è ogni anno Natalia Cangi, Direttrice dell’Archivio dei Diari, capace di illuminare ogni storia, perché se ne percepisca l’importanza, il colore.
Le storie contenute in questi tasselli di memoria vengono descritte con le loro protagoniste la mattina della domenica, quando Andrea Biagiotti e Donatella Allegro, danno vita con letture scelte alle voci di lettere e diari. Come quella di Maria Anici, la ‘vecchietta che cammina’, come si auto-definisce. Dovendo mantenersi in esercizio camminando, Maria rivive la sua storia in rima e la trascrive per farne un diario allegro, pur nella sofferenza, pieno di ironia e di ritmo musicale. Ogni storia è una eredità, una parola che mi arriva da Ilaria Masiello (operatrice socioculturale e fondatrice della Cooperativa Immaginaria), che la unisce alla parola figlia. Lei è arrivata qui a depositare il diario della signora Angelina, che ha conosciuto quasi per caso nel beneventano, scoprendo il suo diario di una vita, scritto in un periodo in cui doveva rimanere immobilizzata a letto. Non parlerò di questa storia, in trepida attesa di ritrovarla il prossimo anno tra quelle in finale.
Per ora ritorno al Premio Pieve dello scorso anno, alla scrittrice Paola Tellaroli, presente quest’anno con il suo libro fresco di stampa, dal titolo “Tutta la polvere del mondo in faccia. Quando guarire è un atto collettivo” (Terre di Mezzo Editore). L’ho ascoltata dialogare con Massimo Cirri e Filippo Maria Battaglia. La voce di Donatella Allegro ha letto brani dal libro di Paola e, ascoltandola, mi colpisce la capacità di descrivere fin dal principio lo schianto della sua vita, a causa di un ictus ischemico. Nel 2017, a ventinove anni, Paola ha perso le parole, parlate e scritte, che ha recuperato assieme alla salute grazie a un sistema corale fatto sia del sistema sanitario ma soprattutto di tutti gli amici e i parenti che l’hanno accompagnata come un branco di delfini. Il suo libro me lo regala l’amica Valeria Landucci, che legge diari ed epistolari, fin dalle origini dell’Archivio, e che ho la fortuna di incontrare ogni volta che vengo da queste parti. Aspetto i suoi consigli di lettura, le sue parole preziose, perché percepisco quanto siano un distillato di tutte le storie che le sono arrivate leggendo e che sono parte del giacimento, pronte per essere estratte da chi si avventura a scavare.
Alcune coincidenze fanno entrare in risonanza la storia di Paola Tellaroli con la mia vita. La prima riguarda mio padre, che ebbe un ictus devastante, a causa del quale perse totalmente il linguaggio. Stando a lui vicina, nei successivi dieci anni, prima che ci lasciasse, mi chiedevo cosa provasse, cosa sentisse, senza trovare le parole per dirlo. Nei suoi occhi credevo di intuire risposte. Ma nel libro di Paola sento di poter trovare un tassello di verità anche per lui che non c’è più. La seconda riguarda l’adesivo che l’autrice ha scelto di confezionare per autografare il suo libro, non riuscendo ancora a scrivere a mano. È stato fatto ricreando la sua calligrafia con l’intelligenza artificiale: “Buona lettura da una scrittrice non scrivente”. Ha risuonato con il mio essermi definita per anni una scrivente. Come se non avessi il coraggio della mia scrittura, per chiamarmi scrittrice. Non è più così che mi sento, mi sono detta solo pochi mesi fa. Sono una scrittrice, non una scrivente, ma prima di tutto sono una lettrice, sempre e comunque. Il coraggio dell’autrice, la sua sensibilità nella scrittura, le parole che sceglie, mi sono arrivate come un fiume in piena, dalla sua scrittura: “L’onda della risacca, come si ritira, poi torna, gettando in modo scomposto sulla banchina qualche conchiglia. Cosí faceva anche il sonno con la mia memoria. La mattina sbucavano come funghi nella mia mente termini che non ricordavo più, per poi insinuarsi nei miei brevi e scarsi discorsi, che a poco a poco iniziarono a guarnirsi”. La sua voce, come sempre succede quando leggo, mi restituisce qualcosa di me, della memoria di mio padre, della possibilità di guarigione intrinseca nella ricerca delle parole, perché la comunicazione sia possibile e avvenga. Ed è questa la forza del mosaico della memoria. Ogni storia un tassello, ogni tassello una sfumatura di colore, una parola, ognuna parte del tutto, ognuna in se stessa un tutto.