Succiacapre

Succiacapre

Settembre 7, 2021 1 Di Marta Cerù

Ho trovato nel campo un uccello, che non riusciva ad alzarsi in volo. Era in difficoltà. L’ho aiutato a entrare in una scatola e ho mandato la foto all’amico di un tempo. È un succiacapre, mi ha scritto, altrimenti detto boccalone, boccaccio, caprimulgo, nottola, nottolone, calcabotto, funaro, in inglese nightjar. È considerato uno psicopompo, cioè uno spirito in forma di animale, che ha il compito di prelevare le anime dei moribondi, per portarle nell’aldilà. Piango la perdita di una persona cara. Aveva la mia età, si chiamava Martina. Ha lasciato la sua forma umana, accompagnata dal canto degli uccelli, dal fruscio delle foglie, dalle voci dei boschi che circondano anche me, oltre che la sua casa, che non ho mai visitato, ma so essere non troppo lontana. Aveva un brutto male, Martina, e ha scelto di trapassare nell’altrove, rimanendo a casa, rinunciando alle cure ormai inutili, anche solo quelle per alleviare il dolore. Era tale il suo credo nella natura, nei legami che la vita intesse, che ha voluto attraversare l’oceano, verso quell’orizzonte che non ci è dato oltrepassare da vivi, lasciandosi andare con fiducia, affidandosi alle onde. 

Ho trovato nel campo un uccello, che non riusciva ad alzarsi in volo. Era in difficoltà. L’ho trovato mentre pensavo a lei, in questi giorni di inizio settembre. Non ho fatto in tempo a conoscerla bene, di persona, pensavo. Pur essendole vicina nello spazio e nel tempo, nel nome dalla radice comune, non avevo avuto occasioni di scambiare con lei più di qualche saluto veloce, come quelli dal finestrino della macchina, ognuna a rincorrere il proprio tempo, a distanza. Un anno fa ci siamo trovate vicine, a manifestare contro la ‘fabbrica dei polli’. Insieme difendevamo l’ambiente che ci ospita, in queste colline e valli umbre, da una minaccia come lo sono le imprese non sostenibili. È stata un’occasione fugace, di intravedere chi fosse, di percepire la sua intensa luce. Non l’ho più vista da allora. Ogni tanto avevo notizie da amici comuni, addolorati per la lotta che combatteva, con coraggio, contro un male incurabile. Molti la conoscevano. La sua vita ha toccato il cuore di tante persone. Quelle più intime erano partecipi delle sue scelte per affrontare la malattia, anche dell’ultima decisione, estrema, coraggiosa. La sostenevano il compagno, il figlio, gli amici più cari. L’hanno accompagnata, giorno dopo giorno, nel suo viaggio da immobile verso il trapasso. 

Ho trovato nel campo un uccello, che non riusciva ad alzarsi in volo. Era in difficoltà. Avevo saputo dall’amica Lieve, solo la sera prima, che la morte aveva colto Martina, in uno di quei pomeriggi settembrini, ancora assolati, ma già freschi dei colori pre autunnali. Ero a un concerto. E la musica di Vivaldi si è unita al pensiero di lei. “Suonava il violoncello”, mi aveva detto l’amica Bernice, solo qualche settimana fa. “Avrebbe amato venire al concerto organizzato a San Zeno. Era felice dell’evento”. Si riferiva alle Suite di Bach, eseguite dal violoncellista Paolo Andriotti, da un tramonto a un’alba di inizio luglio, nella chiesa tornata in vita, sulla collina di San Zeno. Martina stava già troppo male per partecipare, eppure era curiosa di sapere, felice di sostenere un ascolto a distanza. Mi aveva sorpresa questa ulteriore coincidenza tra le nostre vite, anche lei amante di uno strumento che adoro, che avrei voluto saper suonare davvero, anziché strimpellarlo di tanto in tanto.

Siamo vita e poi non siamo più. Cosa ne è di quella che chiamiamo anima?

Ho trovato nel campo un uccello, che non riusciva ad alzarsi in volo. Era in difficoltà. Erano passate una manciata di ore dalla morte di una donna ancora giovane e generosa, di nome Martina. Non avevo mai visto quell’uccello. Sembrava ai miei occhi una sorta di rapace, forse un piccolo falco, e invece ho scoperto che era un succiacapre, un voltatile notturno, dai tanti nomi. Alcuni lo considerano uno psicopompo, ma questo l’ho scoperto solo dopo averlo portato in un centro di cura per animali selvatici. Ad accogliere me e il succiacapre ho trovato una donna calma, sicura, lenta ma decisa, che ha riconosciuto l’uccello spaurito e lo ha messo in una voliera, per osservarlo sotto il suo ombrello, che accoglie ogni forma di vita animale ferita. Il mio ombrello invece lo tengo capovolto, e lo uso per acchiappare parole. Prima di regalarmi la sua, la donna mi ha detto che mi avrebbe tenuta informata della sorte del succiacapre: “Forse è solo spaventato”, mi ha detto. “Stordito, forse. Sono animali notturni, non amano la luce, volano bassi, si nutrono di insetti tra i campi, o di falene lungo i cigli delle sterrate. Forse ha battuto la testa e si è trovato atterrato. A volte capita e muoiono. A volte non è nulla. Se si riprende lo libero anche domani”, ha continuato con voce ferma e premurosa. Le ho chiesto di regalarmi la sua parola, oltre ad Arca, che è il nome del luogo che ha creato. Nella sua Arca accoglie cervi, caprioli, capre, gatti, daini, mucche, tori, cinghiali, volatili rapaci e non. Ci sono animali in ogni dove, nella sua nave spiaggiata, nascosta in mezzo alle colline, al riparano da visitatori indiscreti, o da predatori. La donna dai lunghi capelli grigi, raccolti in una morbida coda lungo la schiena, mi ha detto che la sua parola le da forza, le permette di guardare, di vedere oltre che guardare. La sua parola è ‘miriam’, non il nome, ma un modo suo segreto di pensare al verbo mirare. Mi ha guardata e mi ha vista, nel pronunciare la parola solo sua, ‘miriam’, e mi ha fatto sentire accolta, nel suo regno. 

Il suo regno è solo il luogo dei sogni o è il solo luogo dove sognare?

Ho trovato nel campo un uccello, che non riusciva ad alzarsi in volo. Era in difficoltà. L’ho lasciato una notte e un giorno nel regno di ‘miriam’. Poi sono tornata a riprenderlo. Pensavo a Martina, che se ne è andata sola, e alla sua anima, non ancora pronta a volare da sola. Credo avesse bisogno di una donna e del suo ombrello. Quell’oggetto che usa per proteggere, fornendo riparo a feriti ignoti, o quello che usa per afferrare parole, dalle quali estrarre una cura.

Ho trovato nel campo un uccello, che non riusciva ad alzarsi in volo. Era in difficoltà. Ho guidato tra colline e valli, tra valli e colline, per un giorno e una notte, per una notte e un giorno, con il succiacapre in una scatola. Lo sentivo muoversi, a scatti, eppure piano piano. Mi sono fermata nel posto più bello, non troppo distante da dove l’avevo trovato, non troppo distante dalla casa di Martina. Sono arrivata sulla riva di un laghetto, riarso e artificiale, ormai parte del bosco, seppur disegnato da mani umane. Ho aperto la scatola e ho preso la paglia dove giaceva il succiacapre. L’ho adagiato sotto un cespuglio. L’ho visto saltellare incerto, nascondersi, aprire di poco le ali, richiuderle e saltellare ancora. E poi aprirle di nuovo. Estenderle. Sbatterle. E in un attimo alzarsi in volo. Un attimo. Eterno.